sabato 30 gennaio 2010

Il bavaglio del re Mohammed VI

di Jacopo Granci

Mercoledì 27 gennaio la monarchia marocchina ha ordinato la chiusura del settimanale Le Journal Hebdomadaire, una delle più autorevoli voci critiche del paese.
Intervista a Aboubakr Jamai, editorialista e fondatore di Le Journal, che ha diretto fino al 2006.
Abubakr Jamai è stato fondatore dei settimanali Le Journal e Assahifa nel 1997. Nel 2000 ha fondato Le Journal Hebdomadaire, di cui è stato direttore fino al 2006.

Chi è Aboubakr Jamai? Qual è stato il suo percorso prima di dedicarsi al giornalismo?
Ho seguito una formazione economica. Dopo la fine degli studi ho lavorato in una banca commerciale, la Wafa Bank, e poi ho collaborato alla fondazione di una banca d’affari. Nel 1996 sono stato nominato consigliere in materia di comunicazione del Secretariat Exsecutif du Sommet Economique du Moyen Orient e de l’Afrique du Nord. Un’organizzazione creata dopo il Summit Economico di Casablanca del 1994, che aveva il compito di accompagnare lo sviluppo economico dell’area. Ho lasciato l’incarico dopo un anno e mezzo, al momento della nascita di Assahifa e Le Journal (1997), di cui io sono uno dei co-fondatori, assieme ad Ali Amar.

Da dove viene l’interesse per il giornalismo, data la sua formazione prettamente economica?
Il giornalismo mi ha sempre interessato. Di natura sono curioso. Ho sempre letto la stampa nazionale e, soprattutto, quella internazionale. Credo che tutti i settori siano intrinsecamente legati tra loro. Non si può separare l’economia dalla politica, così come non si può separare la politica dal giornalismo. E in più sono cresciuto, fisicamente intendo, in un contesto giornalistico. Mio padre, Khalid Jamai, ha lavorato a lungo per il quotidiano L’opinion, di cui è stato anche capo-redattore (ora ha una rubrica settimanale Chronique, su Le Journal Hebdomadaire).

Che cosa aveva in mente con la creazione de Le Journal?
Le Journal si è inserito nello spazio di apertura democratica promosso a gran voce a metà degli anni novanta. Assieme ad Ali Amar ci siamo detti che era quello il momento migliore per fondare un giornale, o meglio ancora, un polo giornalistico che comprendesse un quotidiano e un settimanale, in versione francofona e arabofona. Lo Stato si stava aprendo, stava allentando la morsa che per trent’anni aveva impedito il pluralismo nel Paese.
Il nostro modello era il gruppo Prisa, il gruppo di cui fa parte El Pais. Il quotidiano spagnolo venne fondato nel 1976, dopo la morte di Franco e l’inizio del cammino democratico. Avevamo questa idea in testa. Volevamo ripercorrere quella stessa strada.

Nel 2000 Le Journal scompare, come pure Assahifa, e viene fondato Le Journal Hebdomadaire. Che cosa è successo?
Per capire quanto successo nel 2000, bisogna prima prendere in esame il contesto e poi il fatto in sé. Il Marocco, già durante gli ultimi anni di Hassan II, ha intrapreso un cammino di apertura. Non dico di democratizzazione, ma di piccole riforme. Lo dimostrano le nostre pubblicazioni del tempo. Abbiamo osato cose oggi impensabili. Più di una volta abbiamo messo in copertina Ben Barka, addirittura Serfaty, ben prima del suo ritorno in patria, quando ancora era proibito anche solo parlarne. Abbiamo chiesto pubblicamente il licenziamento di Driss Basri quando ancora era ben saldo nella sua poltrona di Gran vizir. Le Journal si è dato una missione precisa: esercitare un controllo mediatico, un controllo critico, su tutte le elite che partecipano alla gestione del Paese.
Pensavamo che il nuovo Re proseguisse sulla strada della riforma e dell’apertura, ma ci siamo sbagliati. Nel 2000, ad un anno dall’ascesa al trono di Mohammed VI, ci siamo accorti che il monarca non aveva alcuna volontà di dare seguito alle sue promesse di democratizzazione. Non per questo abbiamo rinunciato alla nostra linea editoriale. Risultato: la morte del giornale. Ci hanno fatto chiudere i locali due volte in quell’anno, con una semplice circolare proveniente dal Ministero dell’Interno, dunque senza nemmeno un processo o un qualunque accertamento giudiziario. La prima volta in aprile, in via provvisoria, dopo la pubblicazione dell’intervista a Mohamed Abdelazziz (leader del Fronte Polisario). La seconda il 2 dicembre, questa volta in via definitiva.
Dopo la chiusura di Le Journal e Assahifa, ho chiesto immediatamente l’autorizzazione per la creazione di un nuovo giornale. Senza successo. Di fronte ad un rifiuto ingiustificato da parte delle autorità ho iniziato uno sciopero della fame, che per mia fortuna è durato solo due giorni. La stampa internazionale si è mobilitata attorno al nostro caso, così come le associazioni per i diritti umani. La buona fede e le promesse di Mohamed VI iniziavano ad essere messe in dubbio, ed il regime ha dovuto concederci l’autorizzazione. Così è nato Le Journal Hebdomadaire.

Qual è stato l’atteggiamento del regime verso Le Journal Hebdomadaire?
La monarchia ha mantenuto la stessa ostilità dimostrata nei confronti di Le Journal. Per spiegare meglio quello che è successo dal 2000 in poi le darò delle cifre. Lei sa bene che un giornale non vive di sole vendite. La fonte primaria per la sua sopravvivenza sono gli introiti pubblicitari. Il budget pubblicitario raccolto da Le Journal Hebdomadaire è crollato dell’80% nel 2001. In un solo anno. Se oggi lei sfoglia Le Journal Hebdomadaire e Tel Quel (altro settimanale indipendente) può capire la differenza. Diciamo che alcuni sono un po’ più accettati rispetto ad altri. Le aziende direttamente legate al Palazzo, come Royal Air Maroc o Maroc Telecom, hanno rinunciato ad inserire le loro pubblicità nel nostro giornale.
Le faccio un altro esempio. Nel 2001 sono stato condannato ad un anno di carcere, ed il giornale è stato costretto a pagare 70 mila euro di ammenda. Il 1999, l’ascesa al trono di Mohammed VI era dietro l’angolo. Il nuovo regime, fin dall’inizio, ha testato su di noi la nuova strategia di repressione, che ha poi interessato Demain e Doumane di Ali Lmrabet, e in maniera più leggera Tel Quel (altri giornali indipendenti marocchini, ndr).

Come si è arrivati alla promulgazione del Codice della Stampa?
Il Codice della Stampa è stato introdotto in seguito alla vicenda che nel 2000 ha coinvolto Le Journal e Assahifa. Fino a quel momento la libertà di espressione nel Paese era regolata da un vecchio dahir (decreto reale) del 1958. I due giornali, quando il regime li ha condannati a morte, stavano vivendo uno strano fenomeno, a tratti incomprensibile anche per noi che ci lavoravamo. Le vendite erano cresciute tantissimo, avevamo raggiunto un elettorato ampio e composito a livello sociale. C’era un grande interesse attorno ai nostri articoli e alle nostre inchieste. Evidentemente, la gente credeva nel cambiamento. Poi è arrivata la condanna. E quelle stesse persone, che ogni settimana ci leggevano, hanno iniziato a domandarsi: “ma se il Re vuole veramente la democrazia, perché ha fatto chiudere Le Journal?”. La monarchia, volendo preservare la sua immagine, si è nascosta dietro a Youssoufi e ha scaricato le sue responsabilità sul Primo ministro. Il governo, a sua volta, si è difeso dicendo di aver semplicemente seguito la legge. Così, per dimostrare la buona volontà del regime, Mohammed VI ha promesso nuove leggi più liberali. Il risultato è stato il Codice della Stampa, approvato nel 2003. Ma le leggi che contiene non sono affatto liberali, piuttosto le definirei liberticide. L’ennesimo inganno di Mohammed VI.

Con il codice sono comparse anche le famose “linee rosse”? Sì, sono sancite dall’articolo 41. Prima non esistevano. La monarchia, con la scusa di promuovere un avanzamento in campo giuridico, ha creato una trappola mortale per chiunque voglia tentare di fare un giornalismo obiettivo e senza compromessi.

Quali sono questi limiti da non oltrepassare?
E qui arriviamo al nocciolo del problema. Inserire un articolo che punisce ogni offesa al Re e alla famiglia reale, ogni offesa alla religione islamica, alla forma monarchica dello Stato e all’integrità territoriale, che cosa vuol dire? Difendere i diritti di chi non crede significa attaccare l’islam? Denunciare le false promesse monarchiche significa offendere il Re? E soprattutto, chi deve stabilirlo? Dei giudici corrotti, manovrati direttamente dal monarca. Hanno lasciato campo libero all’interpretazione dei giudici, un’interpretazione che non segue alcuna logica giuridica, ma che varia a seconda dei bisogni di sua maestà e del clima politico che si respira nel Paese.


In che modo l’articolo 41 condiziona il vostro lavoro?
Le Journal Hebdomadaire non ha mai accettato l’imposizione delle “linee rosse” e ancor meno l’ambiguità che le accompagna. Nel nostro lavoro abbiamo deciso di non scendere mai a compromessi. Con i nostri articoli non facciamo altro che testare, ogni settimana, i confini di queste linee. La nostra sola arma è la professionalità. Fare un buon giornale, andare fino in fondo. Se veniamo condannati per questo, ci sottomettiamo al volere di una giustizia ingiusta e corrotta, consapevoli di essere sulla strada giusta. Quando Le Journal Hebdomadaire è stato portato in giudizio, non ha mai chiesto perdono al Re, non ha mai fatto appello alla sua grazia o alla sua clemenza. Cedere ad un simile ricatto e a una simile umiliazione, significherebbe tradire i principi per cui ci battiamo.

Oltre all’articolo 41, quali altre parti del Codice giudica lesive nei confronti della libertà di stampa?
Non ricordo gli articoli precisi, ma in generale tutta la parte che riguarda i reati di diffamazione deve essere assolutamente rivista. Tutti gli articoli che prevedono la detenzione per i giornalisti devono essere cancellati. Non sono degni di un Paese che ha ancora il coraggio di definirsi democratico. Corresponsabilizzare, poi, coloro che stampano e distribuiscono i giornali per quello che in essi viene pubblicato, rappresenta un altro ostacolo insidioso alla libertà di stampa. Significa assegnare a queste figure un potere discrezionale sulla linea editoriale. Se non sono d’accordo con quello che hai scritto possono rifiutarsi di distribuire il tuo giornale o di stamparlo”.

Dopo nove anni di attività una sentenza del tribunale vi costringe a versare 3 milioni di dirhams di risarcimento al Centro Europeo di Studi Strategici. Ancora una volta è un articolo sul Fronte Polisario a scatenare la repressione. Anche Le Journal Hebdomadaire, come già Le Journal, finirà sacrificato in nome della sicurezza dello Stato?
Le Journal Hebdomadaire potrà sopravvivere alla multa che gli è stata inflitta. Abbiamo trovato un sistema legale che ci permetterà di dilazionare il pagamento, senza che intervenga il sequestro dei beni minacciato dall’autorità giudiziaria. Pagheremo, ma almeno continueremo a fare il nostro lavoro. D’altronde abbiamo rinunciato alla speranza di fare soldi, di guadagnare con la nostra attività. Non abbiamo più ambizioni di prosperità economica. I nostri introiti attuali ci permettono giusto di pagare i salari e i costi di stampa e distribuzione del giornale. La poca pubblicità che ci resta e gli incassi delle vendite servono a questo. Abbiamo capito che l’essenziale è permettere la sopravvivenza del nostro spirito critico. Vediamo che questo irrita il potere, quindi sappiamo di essere nella strada giusta. Se per proseguire dobbiamo rinunciare ai guadagni che un tempo, forse, sarebbero stati possibili, siamo pronti a farlo.

Lei ha parlato di un clima repressivo che ha accompagnato tutti i dieci anni di regno di Mohammed VI. Non trova che negli ultimi mesi questa attitudine abbia subito una brusca accelerazione?
Quello che è successo negli ultimi mesi si inscrive nella stessa dinamica di quanto già visto nei dieci anni precedenti. Mohammed VI non ha mai rinunciato ad attaccare i giornali indipendenti. Tuttavia il 2009 ha registrato un innegabile inasprimento della repressione. Mettendo in prigione Chahtane (direttore di Al Michaal) e maltrattandolo in carcere, costringendo Akhbar Al Youm alla chiusura con la scusa di una banale caricatura, il Palazzo ha voluto lanciare un messaggio: siamo noi a comandare e chi continua a metterci i bastoni fra le ruote la pagherà cara. E’ finito il tempo delle critiche e delle insubordinazioni. In più, la chiusura di Akhbar Al Youm è totalmente illegale. Non c’è nessuna legge che la autorizzi. E’ come se il regime dichiarasse: da adesso in poi la legge siamo noi. Quello che stabiliamo, indipendentemente dai codici in vigore, è legge. Quanto hanno fatto a Bouachrine e al suo giornale deve servire da esempio.

tratto da Carta

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

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