lunedì 3 dicembre 2012

Tunisia - La rivoluzione fallita


"Quasi una rivoluzione. Perché le cose nel Paese non sono poi così cambiate". Parla Meriem Dhaouadi, tunisina di uno tra i più influenti blog al mondo
di Meriem Dhaouadi *

Dall'esterno la Tunisia, il piccolo Paese che ha ispirato il mondo arabo alla rivolta, si sta muovendo verso una democrazia sostanziale. I manifestanti, di tutti i ceti sociali, sono scesi nelle strade del Paese e con una voce sola hanno gridato: "Le persone chiedono la caduta del regime". Anche se le richieste erano cristalline - "posti di lavoro, libertà e dignità" - l'attuale governo di coalizione, formato da Ennahda dopo le elezioni di ottobre del 2011, è stato praticamente paralizzato. Queste istanze sono state vigorosamente supportate dall’attuale leadership durante i giorni della campagna elettorale. Oggi il "governo legittimo" sta lavorando giorno e notte per negarle.
Decaduta sotto Ben Ali e ancora ai margini due anni dopo la rivolta popolare, Siliana, circa 120 chilometri a sud di Tunisi, è stata testimone mercoledì di una seconda giornata di scontri tra gli abitanti della città e le forze di polizia, che ha causato oltre 200 feriti. Proteste simili hanno avuto luogo in diverse parti della Tunisia, in particolare nelle regioni interne. L'obiettivo è ricordare al governo le priorità del popolo e la frustrazione per i lenti miglioramenti nello sviluppo e nella prosperità economica. L'atteggiamento ostile delle autorità nei confronti delle manifestazioni ha quindi incrementato la sfiducia del popolo in una possibile "rinascita" sociale.
Il giro di vite sui manifestanti non ha scoraggiato il popolo di Siliana a protestare per il terzo giorno consecutivo, per chiedere le dimissioni del governatore, la liberazione dei detenuti arrestati ad aprile, e l'attuazione di progetti che potrebbero dare impulso allo sviluppo della regione. I sindacati hanno invitato a manifestare e gli abitanti di Siliana hanno aderito in massa. Secondo i medici dell'ospedale di Siliana, diciannove persone sono rimaste parzialmente o totalmente accecate durante gli scontri con la polizia.
Quello che la classe dirigente non sembra capire è che la loro risposta violenta alle istanze sociali rinforzerà ancora di più la determinazione da parte del popolo a reclamare la rivoluzione perduta. Si è spesso pensato che l'eredità di Ben Ali fosse finita, ma è palesemente vero il contrario. Un attento esame della retorica dei capi della coalizione di governo rivela che lo stesso tono minaccioso è ancora vibrante. "Il governatore di Siliana è qui per restare", ha affermato il primo ministro della Tunisia Hamadi Jebali in un'intervista radiofonica. Per giustificare i loro fallimenti, i funzionari del governo hanno spesso puntato il dito contro le macchinazioni cospirazioniste orchestrate da alcuni elementi "controrivoluzionari".
Solo pochi mesi fa, ad agosto 2012, Sidi Bouzid, il luogo di nascita della cosiddetta "primavera araba", è stato teatro di violenti scontri tra le forze di sicurezza e alcune persone impegnate in un sit-in per chiedere il miglioramento della qualità di vita. Ancora una volta, gas lacrimogeni e proiettili di gomma sono stati la risposta per affrontare la frustrazione della gente. Il ministro dell'Interno Ali Laarayedh ha accusato i partiti politici e l'opposizione di manipolare le masse. Il semplice fatto che le persone esercitino il proprio diritto di protesta è stato percepito ancora una volta con sospetto, come un complotto orchestrato. L'esclusione dal processo decisionale, la povertà e l’alto tasso di disoccupazione sono state tra le principali forze trainanti che hanno portato le masse in piazza contro Ben Ali: ora vivono ancora in condizioni simili, e continuano a chiedere giustizia sociale.
La coalizione di governo accusa tutti gli altri del calvario che ha afflitto la città di Siliana, e non è disposta ad assumersi le proprie responsabilità per gli scontri. La mentalità vittimista del governo è radicata nella convinzione che "noi" - il governo e i suoi sostenitori - siamo le forze della virtù, mentre "loro" sono le forze del male, che ostacolano il progresso dei rappresentanti della virtù. In una conferenza stampa tenuta giovedì, il capo dell'ufficio del partito politico Ennahda ha ironicamente giustificato l'uso delle armi contro i manifestanti per proteggere le strutture pubbliche e ha notato che le munizioni utilizzate sono state importate da Paesi democratici. Il fatto di usare armi fatte in Paesi democratici, come l'Italia o gli Stati Uniti, legittima la repressione delle proteste che reclamano la giustizia sociale?
L'immagine negativa della brutalità della polizia è ancora vibrante nella mente e nel cuore dei tunisini. Purtroppo, la riforma delle forze di sicurezza sembra muoversi al rallentatore, come tutto il resto in questo Paese. Violazioni dei diritti umani e abusi durante le proteste e nelle carceri si verificano ancora in Tunisia, mentre il governo chiude un occhio.
Recentemente, la World Bank e l’African Development Bank hanno entrambe annunciato prestiti consistenti per supportare la Tunisia, inclusi aiuti anche per le regioni svantaggiate. Il prestito della World Bank è di 500 milioni dollari e il prestito della African Development Bank è di 387.6 milioni di dollari. L'aiuto estero riuscirà a promuovere la stabilità economica e allo stesso tempo la prosperità di un Paese che lotta per raggiungere la libertà e l'uguaglianza sociale?
In passato, Ben Ali e il suo clan calcolarono male la volontà e la forza del popolo di plasmare il proprio destino. Che cosa succederà in futuro è possibile prevederlo, il recente passato ci serve da guida. Il regime di Ben Ali ha fatto affidamento sulle forze di polizia e sulla violenza per aggrapparsi al potere, il popolo ha invocato mezzi non violenti di protesta per reclamare diritti. La pazienza dei tunisini finirà per esaurirsi, non tollereranno il ritorno delle pratiche del regime che hanno rovesciato da due anni. Hanno abbattuto il muro di paura che li aveva privati a lungo della loro dignità di esseri umani.
* Meriem Dhaouadi è una blogger e attivista tunisina, laureanda in Lingua e Civiltà presso l'Università di Tunisi. Scrive per opendemocracy.net. e Nawaatun blog tunisino nato nel 2004 che ha coperto i recenti disordini e la rivoluzione nel Paese, presto trasformatosi in un motore di informazione senza censura importantissimo per tutto il nord-Africa. Nel 2011, Nawaat ha vinto tre importanti premi: The Reporters Without Borders Netizen Prize, The Index on Censorship Award, The Eff 2011 Pioneer Award. Ha inoltre rifiutato il premio Arab eContent Award 2011, in segno di protesta per la censura nel Bahrein e l'arresto di centinaia di attivisti e blogger. Tra i fondatori di Nawaat c'è Sami Ben Gharbia, un blogger e attivista tunisino, co-fondatore anche di Tunileaks. Foreign Policy lo ha indicato tra i 100 pensatori più influenti nel mondo per il 2011.

domenica 2 dicembre 2012

Tunisia - Al grido di “Dégage” riprendono le contestazioni al governo


Dopo tre giorni di manifestazioni e di violentissimi scontri a Siliana, nell’ovest della Tunisia, le proteste si sono estese in numerose altre città del Paese. Anche oggi ci sono state manifestazioni in tutto il paese nelle città di Kassarine, El Kef dove ci sono stati scontri tra manifestanti e polizia. Nella capitale ieri ed oggi manifestazioni di protesta. Mentre a Siliana continua la protesta 

Tunisi 30 novembre 2012
Oggi anche a Tunisi si è svolta una manifestazione di solidarietà agli abitanti di Siliana che richiedono più diritti, lavoro e libertà, oltre che le dimissioni del Governatore locale, nipote del primo ministro Jebali, entrambi esponenti del partito islamico Ennadha. Il Governatore di Siliana viene considerato illegittimo dai manifestanti in quanto non eletto dalla popolazione ma designato direttamente dal governo, dato che in nessuna regione della Tunisia si sono svolte ancora elezioni amministrative.
In tutte le delegazioni del governatorato di Siliana negli ultimi tre giorni migliaia di persone hanno partecipato allo sciopero generale indetto dal sindacato Ugtt. Ieri nel corso della manifestazioni migliaia di giovani, studenti e disoccupati sono stati dispersi dalle forze dell’ordine che hanno sparato, oltre che lacrimogeni e proiettili di gomma, anche proiettili di piombo con fucili da caccia(Rach) provocando oltre 200 feriti, anche gravi, di cui circa 20 rischiano di perdere la vista.
La manifestazione a Tunisi, indetta dagli studenti,è partita dal centro della città e si è diretta di fronte al Ministero dell’Interno, interamente circondato da mezzi blindati e filo spinato, piazzato nel corso della notte dai militari.
Una giovane donna spiega i motivi della protesta: "non si può accettare la repressione contro chi protesta per i propri diritti come a Siliana. Noi non torneremo indietro"

Dopo diverse ore di fronteggiamento tra le centinaia di poliziotti che presidiavano il palazzo e i manifestanti, sono partite delle violente cariche chesono sfociate in una vera e propria caccia all’uomo nelle vie che costeggiano l’arteria principale del centro di Tunisi, Avenue Bourghiba, in cui la polizia ha picchiato selvaggiamentee indiscriminatamente i manifestanti e alcuni tra i giornalisti presenti.
Nel corso della manifestazione sono stati scanditi ininterrottamente i cori che richiamano direttamente al periodo della rivoluzione, primo tra tutti il celebre ”Dégage” che è stato il simbolo della cacciata del dittatore Ben Ali, questa volta indirizzato al ministro dell’interno, diretto responsabile della violenta repressione di Siliana.
Nelle prossime ore si attende a Tunisi l’arrivo di una marcia degli abitanti di Siliana che porterà davanti ai palazzi del potere della Capitale la richiesta delle dimissioni del governo attuale, che ricalca medesime modalità del precedente regime.
Le manifestazioni di questi giorni e le drammatiche immagini dei feriti di Siliana hanno obbligato il Governo a fare un passo indietro sull’uso delle cartucce da caccia Rach.
La Rivoluzione de Gelsomini, che è stata un propulsore anche delle rivoluzioni in Egitto e in Medio Oriente si configura sempre più come incompiuta, e la transizione democratica appare ogni giorno più lontana. Ma se finora la popolazione tunisina è stata in fiduciosa attesa di un cambiamento che non c’è stato, d’ora in avanti sembra pronta a riconquistarsi il proprio futuro.

venerdì 30 novembre 2012

Congo - Dramma umanitario



Goma città fantasma. I ribelli non si ritirano. L'esercito, allo sbando, è accusato di saccheggi. E gli sfollati sono 1,6 mln.

di Michele Esposito

Un esercito regolare allo sbando, accusato di saccheggi e violenze. E una resistenza finora dimostratasi credibile ma capace, da un momento all’altro, di dar vita all’ennesima mattanza.
Lontano dai difficili negoziati di Kampala, a Goma, capitale del Nord Kivu situata nell’Est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), regnano attesa e confusione.
La città, occupata dai ribelli del Movimento 23 Marzo (M23), è in stallo. Le voci di un ritiro dei ribelli si susseguono, ma sembrano ancora false. Migliaia di sfollati faticano a tornare nelle proprie case mentre diversi testimoni denunciano che le truppe regolari si sono rese colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani, accentuando quella che pare delinearsi come l’ennesima emergenza umanitaria per la tribolata ex colonia belga.
GOMA CITTÀ FANTASMA. La capitale del Nord Kivu appare ancora come una «città fantasma, dove la gente preferisce restare in casa, le attività sono solo in parte riprese e anche le scuole, nonostante gli inviti dei ribelli a riaprirle, restano in parte chiuse», ha raccontato a Letter43.it padre Piero Gavioli, direttore del centro giovanile don Bosco Ngangi che, da quando l’M23 ha preso Goma, ospita «7-8 mila sfollati». La situazione, ha sottolineato Gavioli, è comunque di «calma apparente» anche perché l’M23 si è «comportato correttamente» a dispetto dei soldati regolari che «prima di ritirarsi, hanno saccheggiato diverse abitazioni».
LE VIOLENZE DELL'ESERCITO REGOLARE. Alle parole di Gavioli fanno eco quelle di altri testimoni che, nelle città-satellite di Goma, hanno assistito alle violenze di un esercito dove disciplina e tutela dei diritti umani sembrano essere ormai una chimera.
«I soldati sono arrivati e hanno cominciato a sparare e a stuprare le nostre donne. Hanno rubato cibo e altri beni nei negozi e hanno detto che, se li avessimo denunciati, ci avrebbero ucciso», ha raccontato, restando nell’anonimato, un abitante di Minova, città a 50 km a sud di Goma dove l’esercito congolese si è ritirato.
Minova sembra essere la cartina di tornasole di un quadro militare quasi paradossale, che vede i circa 1.500 combattenti dell’M23 presentarsi come una formazione ben equipaggiata e disciplinata a fronte di un esercito congolese che, nonostante possa contare su decine di migliaia di unità, appare paranoico, pericoloso, affamato di ogni genere di beni, prossimo al collasso.
IL TIMORE DI NUOVE TRAGEDIE. L’inaffidabilità delle truppe regolari «per noi non è una novità», ha spiegato a Lettera43.it Stefano Merante, responsabile dei progetti del Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo) nell’Rdc, ricordando al tempo stesso come, nel recentissimo passato, saccheggi e violenze abbiano segnato anche la presenza dell’M23. Anche per questo, ha sottolineato Merante - in costante contatto con i tre volontari italiani operanti al don Bosco - nel centro «c’è un clima di attesa e scoramento», accentuato dal timore che la ripresa dei combattimenti si possa trasformare nell’ennesima «tragedia».

Nell'est della Repubblica del Congo oltre 1,6 milioni di sfollati

Un figlio di profughi congolesi riscalda l'acqua al campo Mugunga, fuori da Goma.(© LaPresse) Un figlio di profughi congolesi riscalda l'acqua al campo Mugunga, fuori da Goma.
Per ora, gli sfollati del don Bosco così come i profughi dei 12 campi dell’area monitorati dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), sono riusciti ad ottenere assistenza alimentare sufficiente per i prossimi giorni.
Ma se «i negoziati andranno per le lunghe come sembra, tornerà l’emergenza», ha avvertito Merante parlando di decine di bambini giunti al don Bosco in uno stato di «malnutrizione». E proprio donne e bambini, è l’allarme lanciato dal responsabile del Vis, sono le principali vittime della prolungata instabilità delle sponde occidentali del lago Kivu, teatro ormai da mesi di quella che «già si era profilata come una catastrofe umanitaria», con almeno «590 mila sfollati interni» registrati sin dalla recrudescenza delle ostilità, nella scorsa primavera.
CONDIZIONI SANITARIE DISPERATE. Famiglie spesso costrette in alloggi di fortuna, in condizioni igienico-sanitarie disperate, che, loro malgrado, hanno ulteriormente destabilizzato un’area che conta in totale 1,6 milioni di profughi. Ma «la causa umanitaria è da tempo passata in secondo piano» mentre le pattuglie dei migliaia di caschi blu della missione Monusco, da quando su Goma sventola il vessillo dell’M23, quasi non si vedono per le strade della città, segno della colpevole impotenza della più grande missione di pace delle Nazioni Unite.

Mercoledì, 28 Novembre 2012

Tratto da: Lettera 43

mercoledì 28 novembre 2012

Egitto - La rabbia del Cairo non si ferma


Piazza Tahrir si riempie di nuovo, questa volta in protesta contro il presidente Morsi. Decine di migliaia hanno affollato le strade della capitale
Fortissime anche ieri le proteste contro il giro di vite attuato da Morsi. Tre cortei nel centro della capitale sono confluiti in Piazza Tahir, ad Alessandria ci sono stati scontri con i sostenitori del Governo e a Mahalla, nel Delta, ci sono stati gravi incidenti.
Le opposizioni denunciano come il decreto del Presidente, non a caso emanato dopo essersi accreditato anche internazionalmente con la mediazione su Gaza, che accentra i poteri nelle sue mani, si configura come un golpe strisciante. Le piazze piene, soprattutto di giovani attestano come la transizione in Egitto sia un processo tutto da definire ed anche che il vento di libertà della primavera araba non ha ancora smesso di alimentare la protesta.
Tahrir, il «giorno dei milioni»
 La piazza fa il dissenso.Lo sanno bene gli attivisti egiziani. Sono le strade a formare le coscienze di chi si oppone a imposizioni autoritarie. Ed è tanto più vero dopo la manifestazioni di ieri, nella grande protesta contro il decreto presidenziale: la dichiarazione pigliatutto di Morsi che ha spaccato il paese. Tra i vicoli dei centri urbani, così come nelle campagne del Delta del Nilo, è montato il risentimento contro chi nulla concede alla piazza. Se le riforme costituzionali di Mubarak erano opposte da un timido dissenso, le decisioni del presidente «rivoluzionario» sono sottoposte al vaglio delle strade e non ci sono sconti.
Migliaia di manifestanti si sono raccolti ieri a Tahrir partendo da vari punti della città. Decine di partiti e movimenti della società civile hanno partecipato alle manifestazioni: Khaled Ali, l'unico candidato comunista alle passate elezioni presidenziali, è arrivato in piazza guidando un corteo che è partito nell'area industriale e operaia del nord del Cairo. «Pane, libertà, abbasso l'Assemblea costituente», urlavano questi attivisti. Altri più avanti gridavano: «Loro (i Fratelli musulmani, ndr) dicono che siamo una minoranza, noi facciamo la marcia dei milioni».
I giovani del movimento 6 aprile e i socialisti del Tagammu si sono incontrati nel pomeriggio intorno alla moschea Fatah, nel centro della città, per iniziare la loro marcia verso Tahrir. Sugli striscioni si leggevano dure frasi di opposizione alla dichiarazione costituzionale. I liberali si sono dati appuntamento invece nei pressi dell'università di Ayn Shamps insieme a decine di studenti. L'esponente del partito degli egiziani liberi, Mohamed al-Koumy, ha detto: «costringeremo il regime alle dimissioni, ci prepariamo ad un sit-in e allo sciopero generale». Durante la marcia verso Tahrir, è arrivata la notizia della morte di Fathy Gharib. Il sessantenne è stato ucciso dopo aver respirato gas lacrimogeni negli attacchi contro i manifestanti che hanno avuto luogo la mattina di martedì avanti al ministero dell'interno in via Sheykh Rihan al Cairo. «Morsi è Mubarak. Anche lui ordina di sparare contro la folla», ha detto Mohamed Shaaban, un avvocato che prendeva parte al corteo. Tuttavia, gli islamisti hanno negato ogni responsabilità nelle violenze. «Le forze dell'ordine - ha fatto sapere, Usama Ismail, dirigente del ministero degli interni - hanno in dotazione solo gas lacrimogeni e le direttive del ministro sono per la massima moderazione».
In piazza Tahrir, sono arrivati anche i leader laici da Amr Moussa a Mohammed el-Baradei. Hanno preso parte alle manifestazioni la quasi totalità dei giudici e dei pubblici ministeri egiziani. Mentre si teneva una riunione straordinaria del consiglio della magistratura per valutare il prossimo passo nell'opposizione al decreto. «Ha più poteri lui (Morsi, ndr) di un faraone, è una presa in giro della rivoluzione che lo ha portato al potere», ha insistito Mohammed el-Baradei. Il leader liberale ha difeso poi tutti i politici (30 su 100) che si sono ritirati dall'Assemblea costituente in segno di protesta contro il decreto Morsi. «Temiamo che i Fratelli musulmani vogliano far passare un documento che marginalizzi i diritti delle donne e delle minoranze religiose», ha accusato el-Baradei. Tra la folla di Tahrir, c'era anche il presidente della giuria del festival internazionale del cinema del Cairo, Marco Muller. L'apertura del festival è stata spostata a oggi a causa delle proteste, ma molti cineasti egiziani hanno deciso di ritirare i loro film in segno di critica verso la decisione del presidente.
Manifestazioni simili a quella del Cairo si sono svolte a Suez, Luxor, Beni Suif e nelle città del Delta. A Tanta e Mahalla ci sono stati scontri fra sostenitori dei Fratelli musulmani e oppositori di Morsi. Secondo testimoni, nel governatorato di Gharbeya un fitto lancio di bottiglie incendiarie ha reso lo scontro cruento, causando decine di feriti. Tranne alcuni giovani del movimento, sostenuti dal vicepresidente del movimento Essam el-Arian, i Fratelli musulmani non sono scesi in piazza e hanno sminuito la portata delle proteste. Ma la piazza ha fatto la sua parte e ha motivato gli egiziani a non arrendersi ad un nuovo autoritarismo.

Nuove proteste a Piazza Tahrir
Decine di migliaia di persone stanno di nuovo protestando al Cairo contro le riforme approvate il 22 novembre dal presidente egiziano Mohamed Morsi. I manifestanti, riuniti in piazza Tahrir, accusano il presidente e il suo partito, i Fratelli musulmani, di aver tradito la rivoluzione dello scorso anno.
Violente proteste erano già scoppiate il 23 novembre, riempiendo il centro della capitale egiziana. La polizia ha reagito sparando dei lacrimogeni e un uomo è morto per un attacco di cuore dopo aver respirato il gas. Il popolo contesta il decreto costituzionale di Morsi, che estende i poteri del presidente impedendo a qualsiasi tribunale di contrapporsi alle sue decisioni. Una riforma che di fatto lo sottrae al potere di controllo della magistratura.
“Non vogliamo una nuova dittatura. Il regime di Mubarak era una dittatura. Abbiamo fatto una rivoluzione per ottenere giustizia e libertà”, ha dichiarato un manifestante. Le proteste sono in corso anche ad Alessandria d’Egitto. Il resoconto della Bbc.
“Non esistono dittatori temporanei. Tutte le leggi autoritarie vengono imposte con la pretesa che siano temporanee, ma alla fine prendono il potere per sempre. Se permetti a un dittatore di sospendere la legge per un giorno, sarà un dittatore per sempre”, ha commentato lo scrittore Alaa al Aswany. Il link all’articolo completo, in arabo.

martedì 27 novembre 2012

Messico - Allarme nello stato di Sonora

“Consideramos una burla contra el pueblo de México que Felipe Calderón haya venido a Sonora a inaugurar el acueducto Independencia, pues tenemos amparos que señalan que se debe detener su construcción”, explica desde Sonora Mario Luna, autoridad tradicional yaqui.

México. Un clima de tensión se vive en la ciudad de Vícam, Sonora, que desde la madrugada de ayer se encuentra sitiada por 40 patrullas con cerca de 150 elementos de la policía federal y estatal. El pueblo fue rodeado luego de que la tribu yaqui anunció que se manifestaría en la carretera internacional contra la presencia del presidente Felipe Calderón Hinojosa en Sonora, para “inaugurar” el acueducto Independencia. 

“No podíamos pasar por alto esta situación y decidimos bloquear la carretera internacional. El gobierno respondió enviando policías a todas las entradas de Vícam Estación, y desde la madrugada de ayer ha estado el pueblo sitiado por elementos de la policía federal y de la policía estatal investigadora”, explica Mario Luna, autoridad tradicional de la tribu yaqui, en entrevista con Desinformémonos. (leer más)

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!