martedì 4 dicembre 2012

Quatar - Cop 18 Doha: conferenza mondiale sull'effetto serra e dintorni


2012 è la fine del mondo .... è un business lo sappiamo bene, ancor di più se vogliamo osservare quello che sta succedendo a Doha
Se i luoghi vogliono dire qualcosa sullo stato del dibattito intorno al cambio climatico, siamo messi molto male: siamo passati dalla Cop a Copenhagen con la "speranza della green economy" obamiana, messa in cantina dalla crisi, a Doha in Quatar, uno degli stati petrolieri e quindi maggiormente interessati alle scelte sui combustibili fossili, passando per Cancun, luogo della devastazione turistica di un intero territorio e per Durban, città della crescita senza barriere ambientali dell'ultimo dei Brics, in Sudafrica.
Doha simbolo del sistema che si vuol tenere, anche dopo che la tempesta perfetta Sandy ha devastato la costa nord orientale degli USA, richiamando alla memoria i migliori film catastrofisti e dopo quanto di terribilmente materiale incombe su tutti noi dietro i cambiamenti climatici: in questi giorni lo abbiamo visto da vicino, anche in Italia. La tromba d'aria sull'ILVA a Taranto, la bomba d'acqua sulla Toscana, i nubifragi continui in Liguria, il continuo pericolo esondazione in mezzo Veneto sono continui campanelli d'allarme che questo sistema economico non vuole sentire e che vorrebbe tacitare con tecnicismi quali le emissioni pro capite anzichè per Stato ... ma noi, i cittadini del mondo, non possiamo più accettare passivi il gioco delle tre carte sulla nostra pelle: è ora di porre rimedio al più presto.
Per capire cosa sta succedendo a Doha vi proponiamo un articolo collage tratto da numerosi siti.
I lavori della diciottesima Conferenza delle parti sui mutamenti climatici qui a Doha proseguono e venerdì, giorno previsto per la chiusura, non è molto lontano, ma certo i punti fermi non sono molti. Si è deciso che la Polonia sarà la sede della prossima COP19, nel novembre del 2013, cosa che ha suscitato non poche perplessità visto che parliamo di un Governo, quello di Varsavia che da oltre un anno sta bloccando le negoziazioni fermando sul nascere qualsiasi tentativo di passo avanti da parte dell'Unione Europea.
E se Sua Eccellenza Abdullah bin Hamad Al-Attiyah, Presidente di questa Conferenza, rappresentando il Qatar che è il paese con le più alte emissioni procapite al mondo, continua ad esprimere la propria contrarietà ad un piano di mitigazione delle emissioni basato su un modello procapite, si discute molto sul modello da adottare nel nuovo accordo globale previsto dalla Durban Platform (ADP), quella uscita dalla COP17 dello scorso anno a partire dal 2020. Per il principio delle comuni ma differenziate responsabilità, il sistema procapite garantirebbe maggiore equità tuttavia avvantaggerebbe Paesi come la Cina, oggi con le maggiori emissioni di gas serra al mondo ma, allo stesso tempo, con percentuali di emissioni procapite molto più basse di Stati Uniti o Unione Europea.
La 18ma conferenza mondiale sui cambiamenti climatici che si sta tenendo a Doha, vede svilupparsi il dibattito tra le oltre 190 nazioni coinvolte nei negoziati. Ma cosa si evince dai primi dibattiti?
Anzitutto i paesi del blocco Basic (Brasile e Cina in primis) ribadiscono che la responsabilità del successo o fallimento dei negoziati è in mano ai paesi ricchi, e l'UE, la Svizzera e l'Australia si dichiarano pronte a firmare la seconda parte del protocollo di Kyoto.
La conferenza di Doha prosegue e vede alcune prime prese di posizione: i paesi del blocco Basic (Brasile, Sud Africa, India, Cina), ribadiscono subito che la responsabilità dei negoziati è in mano ai paesi ricchi, come per mettere in chiaro che al riguardo non servono giri di parole. Altro momento di rilievo è stata la comunicazione ufficiale da parte dell'UE, della Svizzera e dell'Australia di voler firmare la seconda fase del protocollo di Kyoto, comunicazione che conferma le volontà già rese note negli scorsi mesi. Per il momento, nessun accodamento di rilievo riguardo a Kyoto 2.
E mentre l'UNEP [agenzia ONU sul clima ed inquinamento] lancia un nuovo appello alle nazioni affinché prendano decisioni forti e subito, poichéSenza interventi rapidi anti-CO2, gli impegni attuali di riduzione delle emissioni di gas serra dei governi porteranno ad un riscaldamento del Pianeta fra i 3 e i 5 gradi centigradi entro questo secoloil Canada mantiene la sua posizione contraria ai negoziati in palese difesa del proprio interesse nel petrolio. Il ministro dell'ambiente italiano Corrado Clini, dal canto suo, ha commentato come segue l'urgenza di arginare i mutamenti climatici: "È un problema che non riguarda solo i paesi in via di sviluppo. Il fatto è che si avranno crescenti danni ai territori, soprattutto nelle città più ricche e lo dimostrano il caso di New York, ma anche di Genova, della Toscana e di Roma."
Belle parole, che tuttavia non devono restare tali ma diventare fatti, come sottolinea polemicamente (e a ragione) Greenpeace, che ricorda come da questa conferenza devono uscire fatti non parole.
È ora che i governi, compreso quello italiano che promuove il carbone e le trivellazioni in mare, si diano da fare per rappresentare concretamente gli interessi delle popolazioni, sempre più vittime del cambiamento climatico, e non quelli delle imprese fossili, dai petrolieri a chi costruisce centrali a carbone, che di tutto questo sono responsabili.
Come ci ricordava ieri il pezzo di Chiara Zanotelli, una delle ragazze trentine che, nel giugno scorso, avevano partecipato a Rio +20 in Brasile, si è aperta lo scorso lunedì a Doha la 18esima Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici(Cop18) che chiude una fase storica dei negoziati sul clima, quella in cui ci si era illusi che per superare la crisi climatica fosse sufficiente l'impegno legalmente vincolante nella riduzione delle emissioni dei soli paesi industrializzati. Non è stato così. Per risolvere l'innalzamento della temperatura globale, la riduzione delle emissioni di CO2 e il finanziamento di un fondo mondiale per il clima si riparte dal Qatar, un gigante mondiale del petrolio che detiene il record mondiale di emissioni di CO2 pro capite e il record mondiale di consumo di acqua con 1.200 litri per abitante al giorno. Anche per questo la Cop18 di Doha punta anche simbolicamente sul risparmio di energia e di materia, infatti, sarà la prima conferenza dell'Onu dove i partecipanti saranno dotati di copie digitali dei documenti, per ridurre l'inquinamento del traffico i delegati si sposteranno con un centinaio di autobus a gas e gli organizzatori hanno dichiarato che l'intero evento sarà carbon neutral, con le emissioni prodotte che saranno compensate da investimenti in progetti di riduzione o assorbimento della CO2. Un'autentica sfida per il più grande meeting mai ospitato dal Qatar con oltre 17mila persone da 194 Paesi che fino al 7 dicembre tenteranno di mettere in agenda un nuovo accordo globale sul clima vincolante per tutti i Paesi "nel pieno rispetto dell'equità, secondo il principio di responsabilità comuni, ma differenziate tra paesi ricchi e poveri". Queste almeno le premesse già concordate a Durban lo scorso anno, e che dovranno essere sottoscritte entro il 2015 e divenire operative entro il 2020, non oltre.
Ma siamo veramente all'ultima chiamata sul clima?
Se non bastassero i devastanti fenomeni meteorologici come la tempesta Sandy o in questi giorni il ciclone Medusa (nel Belpaese aiutati dal mal governo del territorio) i dubbi sembrano pochi. Secondo l'United Nations environment programme (Unep) che ha presentato alla Cop 18 il rapportoPolicy Implications of Warming Permafrost il permafrost che copre circa un quarto dell'emisfero nord (comprese anche aree delle Alpi), potrebbe contenere fino a 1.700 gigatonnellate di CO2, cioè il doppio della quantità presente attualmente nell'atmosfera e "Se lo scioglimento dei ghiacci prosegue al ritmo previsto dalle modellizzazioni del clima, la liberazione dei gas serra stoccati nei ghiacci del permafrost amplificherà il riscaldamento climatico in maniera significativa". Per l'ultimo rapporto Trends in global CO2 emissions(.pdf) pubblicato a luglio dal Joint Research Centre della Commissione Europea, malgrado gli sforzi di riduzione promessi da molti paesi industrializzati e la fase di bassa crescita frutto della crisi economica, le emissioni di CO2 sono cresciute su scala globale anche nel 2011, facendo segnare un deciso +2,7%.
Valutazioni poco rassicuranti arrivano anche dalla World Meteorological Organization che nell'ultimo bollettino avverte come tra il 1990 e il 2011 si sia verificato un incremento del 30% dell'influenza della CO2 antropica nell'atmosfera. A mettere definitivamente in guardia sugli effetti negativi di un clima fuori controllo è anche il nuovo rapporto Turn Down the Heat commissionato dalla Banca Mondiale al Potsdam Institute for Climate Impact Research. La raccomandazione di questi report è sempre e soltanto una sola:concertare un'azione ambiziosa, repentina e condivisa da tutte le parti in gioco per mantenere la Terra sotto il celebre tipping point dei 2°C di aumento della temperatura mondiale, visto che gli impegni di riduzione attuali ci stanno portando verso una via di non ritorno, con un surriscaldamento stimato tra i 3.5°C e i 6°C. Il Pianeta, insomma, è sulla buona strada per raggiungere un aumento della temperatura di 4° C entro il 2100, condannando le nuove generazioni ad un futuro di tempeste e ondate di calore estreme, scorte alimentari in calo, perdita di ecosistemi e biodiversità, e un aumento del livello del mare incompatibile con la vita.
Insomma per chi non se ne fosse accorto quello che stiamo vivendo "Non è un cambio di stagione" (come ci ricordava Martín Caparrós con una critica costruttiva all'emergenza climatica pubblicata nel 2011) e per questo "È fondamentale approvare già a Doha il rinnovo degli impegni previsti dal Protocollo di Kyoto, in scadenza alla fine di quest'anno"ha dichiarato lunedì scorso Mauro Albrizio, responsabile delle Politiche Europee di Legambiente. Sino ad ora, tra i paesi industrializzati, hanno garantito la sottoscrizione i 27 membri dell'Unione europea, la Svizzera e la Norvegia, più o meno il 15% delle emissioni globali. Mentre Australia e Nuova Zelanda devono ancora assumere una decisione finale, Paesi come USA, Canada, Giappone e Russia si sono già detti contrari. Purtroppo "Nonostante le perpelssità il Kyoto 2 è uno strumento indispensabile a garantire la transizione verso il nuovo accordo globale" ha concluso Albrizio.
Per Legambiente ed altre ong internazionali presenti a Dhoa una soluzione di buon senso esiste: "ma restano ancora da sciogliere alcuni nodi giuridici per risolvere la questione spinosa del surplus di emissioni di CO2 dei Paesi industrializzati - ha spiegato Wael Hmaidan, direttore di Climate action network -. Se si continua a consentire la possibilità di vendere sul mercato delle emissioni di CO2 le quote in eccesso, si rischia di rendere virtuali gli impegni di riduzione dei paesi acquirenti".
Altra decisione fondamentale per il buon esito di Doha riguarda gli aiuti ai Paesi poveri. "Per sostenere i loro impegni di riduzione e di adattamento ai cambiamenti climatici in corso nel periodo di transizione 2013-2015 occorre un sostegno finanziario annuo di almeno 10-15 miliardi di dollari" ha spiegato Samantha Smith, responsabile Global climate and energy work del Wwf. "Serve, infine - ha concluso Albrizio - l'eliminazione entro il 2020 dei sussidi ai combustibili fossili. Si tratta di circa 800 miliardi di dollari l'anno che potrebbero essere invece destinati a sostenere azioni a favore delle energie rinnovabili. Oltre 110 Paesi si sono già espressi a favore di una decisione ormai non più rinviabile".
Staremo a vedere, ma una cosa è certa: Doha in questi ultimi 5 giorni di lavoro deve inviare segnali importanti sul fatto che il mondo possa ancora riuscire a mantenere il riscaldamento entro limiti tollerabili, oppure chiarire se siamo diretti verso un grave caos climatico che relegherà l'ambiente a "far notizia" solo in concomitanza di catastrofi sempre meno naturali e sempre più diverse da un normale cambio di stagione.
Articolo collage tratto da:
www.greenreport.it
www.ecologiae.com
www.unimondo.org

lunedì 3 dicembre 2012

Messico - Il Presidente Pena Nieto si insedia tra scontri e proteste


Durissima la repressione contro i manifestanti che fin dalla mattina hanno circondato i palazzi del governo 

1 dicembre giornata di insediamento del priista Pena Nieto alla Presidenza della Repubblica. Contro un'elezione considerata da molti illegittima ieri sono scesi in piazza fin dall'alba numerosi manifestanti che hanno cercato di circondare i palazzi governativi. La repressione è stata violentissima con feriti ed arresti e addirittura si è parlato di un morto (in nottata si è saputo che era un ferito che è in gravi condizioni all'ospedale). Ci sono stati scontri in tutto il centro.
La protesta era stata lanciata dal movimento #YoSoy132, nato durante le elezioni per denunciare la mancanza di democrazia reale nel paese, dalle realtà studentesche e da comitati, reti, sindacati e organizzazioni sociali.

Da Desinformemonos la cronaca della giornata

Violenta repressione all'arrivo alla presidenza del paese  di Pena Nieto 
Almeno dieci feriti gravi e sette intossicati, 92 arrestati tra cui undici minori, e un numero indefinito di desaparecidos è il bilancio della violenta giornata di repressione che è cominciata la mattina di sabato e che è continuata fino alle 4 del pomeriggio, durante le proteste convocate dal movimento #YoSoy132 per l'entrata in carica alla presidenza di Enrique Peña Nieto.
Per più di dieci ore gli studenti, gli attivisti, i militanti di varie organizzazioni civili e i sindacati e cittadini mentre manifestavano ripudiando la presa di potere di Peña Nieto, sono stati accerchiati, colpiti con armi da fuoco, picchiati, asfissiati dai gas ed anche arrestati arbitrariamente da elementi della polizia federale e statale, nella zona del  Palacio legislativo di San Lázaro – dove è iniziata la protesta– fino alla sede del Senato, ed ancora nella zona del Zócalo, il Monumento alla Rivoluzione e il  Palacio de Bellas Artes.
Gli scontri sono iniziati fin dalle sette della mattina nei dintorni di San Lázaro. Alle 4:30 della mattina uno spezzone di giovani di #YoSoy132 e della Acampada Revolución si erano diretti verso il palazzo legislativo per fare una catena umana intorno al  Congreso. Qui si sono incontrati con spezzoni della Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación (CNTE) ed altre organizzazioni a cui poi si sono aggiunti anche i militanti del Frente de Pueblos en Defensa de la Tierra (FPDT). Circa alle sette della mattina i manifestanti hanno iniziato a togliere alcune delle reti che circondavano la zona. Immediatamente la polizia federale e i granatieri  del Distrito Federal hanno iniziato a sparare una grande quantità di gas lacrimogeni e pallottole di gomma. Da dentro il recinto hanno anche cominciato a sparare acqua contro i manifestanti.
I manifestanti hanno risposto con quello che avevano a disposizione e le strade della zona si sono trasformate in un campo di battaglia. Qui ci sono stati i feriti più gravi della giornata: Francisco Quinquedal Leal, di 67 anni, professore di teatro e simpatizzante dell'Otra Campaña, colpito da una granata alla testa e il giovane Rubén Fuentes ferito da arma da fuoco ad una gamba.
Con sassi, bottiglie e molotov i manifestanti hanno risposto all'assalto furioso della polizia. Gli scontri a San Lázaro sono durati fino alle 11 della mattina quando i manifestanti hanno deciso di riitirarsi e continuare la protesta verso lo Zócalo di Città del Messico, in cui si trova il Palacio Nacional, luogo dal quale Enrique Peña Nieto doveva inviare un messaggio alla nazione.
Le strade del centro storico sono state letteralmente blindate da migliaia di poliziotti - federali, cittadini ed anche dei corpi della Bancaria Industrial e del Tránsito- per impedire l'accesso allo Zocalo, perfino a dei commercianti che portavano dei cartelli a favore del presidente. Un gruppo di professori della CNTE è stato "circondato" dai granatieri locali. Intanto c'erano scontri fin nella zona del Senato, a Reforma e París.
Un cordone di granatieri, insieme a pattuglie e uomini della sicurezza pubblica del Distretto Federale impediva il passaggio in avenida Juárez, di fronte al Palacio de Bellas Artes, dove verso l'una ci sono stati scontri tra forze dell'ordine e manifestanti. Intanto un altro gruppo che protestava veniva represso in avenida Reforma, vicino al Monumento a la Revolución. Per due ore durante questa azione repressiva i negozi e locali di tutta la zona sono stati chiusi.
In un giro fatto dai giornalisti di Desinformémonos per tutto il centro si sono potuti vedere blocchi fatti dai poliziotti che circondavano l'intera area.
Attorno alle quattro i gruppi di manifestanti erano in gran parte dispersi dagli scontri avvenuti in diversi punti del centro storico. Circa un migliaio di persone si sono ritrovate intorno alla  Acampada Revolución, al Monumento a la Revolución, e da là di sono diretti alla Agencia 50 della Procuraduría General de Justicia del Distrito Federal, in cui si trovavano 92 delle persone fermate senza che peraltro, come raccontato dai militanti del movimento #YoSoy132, fosse possibile per gli avvocati vederli e parlare con loro.

RASSEGNA STAMPA

Desinformémonos del lunedì


Reportajes México


ADAZAHIRA CHÁVEZ


MARCELA SALAS CASSANI


SERGIO ADRIÁN CASTRO BIBRIESCA


SERGIO ADRIÁN CASTRO BIBRIESCA


JAIME QUINTANA GUERRERO


DESINFORMÉMONOS


JAIME QUINTANA GUERRERO


MARCELA SALAS CASSANI


DESINFORMÉMONOS

Reportajes Internacional


JUAN ANTONIO CAÑERO CRESPO



SIETE NUBES 


DESINFORMÉMONOS


ALEJANDRA DEL PALACIO

Imagina en Resistencia


MARCELA SALAS CASSANI

Fotoreportaje


FOTOS: AGENCIA AUTÓNOMA DE COMUNICACIÓN SUBVERSIONES, RODRIGO JARDÓN, COLECTIVOS DE #YOSOY132 INTERNACIONAL Y DESINFORMÉMONOS
TEXTO: DESINFORMÉMONOS
MÚSICA: “GIMME THE POWER”, DE MOLOTOV
PRODUCCIÓN: DESINFORMÉMONOS

Video


ALDAVI OLVERA E IGNACIO MARTÍNEZ; MÁS DE 131


 Audio


REALIZACIÓN: SERGIO CASTRO BIBRIESCA

Tunisia - La rivoluzione fallita


"Quasi una rivoluzione. Perché le cose nel Paese non sono poi così cambiate". Parla Meriem Dhaouadi, tunisina di uno tra i più influenti blog al mondo
di Meriem Dhaouadi *

Dall'esterno la Tunisia, il piccolo Paese che ha ispirato il mondo arabo alla rivolta, si sta muovendo verso una democrazia sostanziale. I manifestanti, di tutti i ceti sociali, sono scesi nelle strade del Paese e con una voce sola hanno gridato: "Le persone chiedono la caduta del regime". Anche se le richieste erano cristalline - "posti di lavoro, libertà e dignità" - l'attuale governo di coalizione, formato da Ennahda dopo le elezioni di ottobre del 2011, è stato praticamente paralizzato. Queste istanze sono state vigorosamente supportate dall’attuale leadership durante i giorni della campagna elettorale. Oggi il "governo legittimo" sta lavorando giorno e notte per negarle.
Decaduta sotto Ben Ali e ancora ai margini due anni dopo la rivolta popolare, Siliana, circa 120 chilometri a sud di Tunisi, è stata testimone mercoledì di una seconda giornata di scontri tra gli abitanti della città e le forze di polizia, che ha causato oltre 200 feriti. Proteste simili hanno avuto luogo in diverse parti della Tunisia, in particolare nelle regioni interne. L'obiettivo è ricordare al governo le priorità del popolo e la frustrazione per i lenti miglioramenti nello sviluppo e nella prosperità economica. L'atteggiamento ostile delle autorità nei confronti delle manifestazioni ha quindi incrementato la sfiducia del popolo in una possibile "rinascita" sociale.
Il giro di vite sui manifestanti non ha scoraggiato il popolo di Siliana a protestare per il terzo giorno consecutivo, per chiedere le dimissioni del governatore, la liberazione dei detenuti arrestati ad aprile, e l'attuazione di progetti che potrebbero dare impulso allo sviluppo della regione. I sindacati hanno invitato a manifestare e gli abitanti di Siliana hanno aderito in massa. Secondo i medici dell'ospedale di Siliana, diciannove persone sono rimaste parzialmente o totalmente accecate durante gli scontri con la polizia.
Quello che la classe dirigente non sembra capire è che la loro risposta violenta alle istanze sociali rinforzerà ancora di più la determinazione da parte del popolo a reclamare la rivoluzione perduta. Si è spesso pensato che l'eredità di Ben Ali fosse finita, ma è palesemente vero il contrario. Un attento esame della retorica dei capi della coalizione di governo rivela che lo stesso tono minaccioso è ancora vibrante. "Il governatore di Siliana è qui per restare", ha affermato il primo ministro della Tunisia Hamadi Jebali in un'intervista radiofonica. Per giustificare i loro fallimenti, i funzionari del governo hanno spesso puntato il dito contro le macchinazioni cospirazioniste orchestrate da alcuni elementi "controrivoluzionari".
Solo pochi mesi fa, ad agosto 2012, Sidi Bouzid, il luogo di nascita della cosiddetta "primavera araba", è stato teatro di violenti scontri tra le forze di sicurezza e alcune persone impegnate in un sit-in per chiedere il miglioramento della qualità di vita. Ancora una volta, gas lacrimogeni e proiettili di gomma sono stati la risposta per affrontare la frustrazione della gente. Il ministro dell'Interno Ali Laarayedh ha accusato i partiti politici e l'opposizione di manipolare le masse. Il semplice fatto che le persone esercitino il proprio diritto di protesta è stato percepito ancora una volta con sospetto, come un complotto orchestrato. L'esclusione dal processo decisionale, la povertà e l’alto tasso di disoccupazione sono state tra le principali forze trainanti che hanno portato le masse in piazza contro Ben Ali: ora vivono ancora in condizioni simili, e continuano a chiedere giustizia sociale.
La coalizione di governo accusa tutti gli altri del calvario che ha afflitto la città di Siliana, e non è disposta ad assumersi le proprie responsabilità per gli scontri. La mentalità vittimista del governo è radicata nella convinzione che "noi" - il governo e i suoi sostenitori - siamo le forze della virtù, mentre "loro" sono le forze del male, che ostacolano il progresso dei rappresentanti della virtù. In una conferenza stampa tenuta giovedì, il capo dell'ufficio del partito politico Ennahda ha ironicamente giustificato l'uso delle armi contro i manifestanti per proteggere le strutture pubbliche e ha notato che le munizioni utilizzate sono state importate da Paesi democratici. Il fatto di usare armi fatte in Paesi democratici, come l'Italia o gli Stati Uniti, legittima la repressione delle proteste che reclamano la giustizia sociale?
L'immagine negativa della brutalità della polizia è ancora vibrante nella mente e nel cuore dei tunisini. Purtroppo, la riforma delle forze di sicurezza sembra muoversi al rallentatore, come tutto il resto in questo Paese. Violazioni dei diritti umani e abusi durante le proteste e nelle carceri si verificano ancora in Tunisia, mentre il governo chiude un occhio.
Recentemente, la World Bank e l’African Development Bank hanno entrambe annunciato prestiti consistenti per supportare la Tunisia, inclusi aiuti anche per le regioni svantaggiate. Il prestito della World Bank è di 500 milioni dollari e il prestito della African Development Bank è di 387.6 milioni di dollari. L'aiuto estero riuscirà a promuovere la stabilità economica e allo stesso tempo la prosperità di un Paese che lotta per raggiungere la libertà e l'uguaglianza sociale?
In passato, Ben Ali e il suo clan calcolarono male la volontà e la forza del popolo di plasmare il proprio destino. Che cosa succederà in futuro è possibile prevederlo, il recente passato ci serve da guida. Il regime di Ben Ali ha fatto affidamento sulle forze di polizia e sulla violenza per aggrapparsi al potere, il popolo ha invocato mezzi non violenti di protesta per reclamare diritti. La pazienza dei tunisini finirà per esaurirsi, non tollereranno il ritorno delle pratiche del regime che hanno rovesciato da due anni. Hanno abbattuto il muro di paura che li aveva privati a lungo della loro dignità di esseri umani.
* Meriem Dhaouadi è una blogger e attivista tunisina, laureanda in Lingua e Civiltà presso l'Università di Tunisi. Scrive per opendemocracy.net. e Nawaatun blog tunisino nato nel 2004 che ha coperto i recenti disordini e la rivoluzione nel Paese, presto trasformatosi in un motore di informazione senza censura importantissimo per tutto il nord-Africa. Nel 2011, Nawaat ha vinto tre importanti premi: The Reporters Without Borders Netizen Prize, The Index on Censorship Award, The Eff 2011 Pioneer Award. Ha inoltre rifiutato il premio Arab eContent Award 2011, in segno di protesta per la censura nel Bahrein e l'arresto di centinaia di attivisti e blogger. Tra i fondatori di Nawaat c'è Sami Ben Gharbia, un blogger e attivista tunisino, co-fondatore anche di Tunileaks. Foreign Policy lo ha indicato tra i 100 pensatori più influenti nel mondo per il 2011.

domenica 2 dicembre 2012

Tunisia - Al grido di “Dégage” riprendono le contestazioni al governo


Dopo tre giorni di manifestazioni e di violentissimi scontri a Siliana, nell’ovest della Tunisia, le proteste si sono estese in numerose altre città del Paese. Anche oggi ci sono state manifestazioni in tutto il paese nelle città di Kassarine, El Kef dove ci sono stati scontri tra manifestanti e polizia. Nella capitale ieri ed oggi manifestazioni di protesta. Mentre a Siliana continua la protesta 

Tunisi 30 novembre 2012
Oggi anche a Tunisi si è svolta una manifestazione di solidarietà agli abitanti di Siliana che richiedono più diritti, lavoro e libertà, oltre che le dimissioni del Governatore locale, nipote del primo ministro Jebali, entrambi esponenti del partito islamico Ennadha. Il Governatore di Siliana viene considerato illegittimo dai manifestanti in quanto non eletto dalla popolazione ma designato direttamente dal governo, dato che in nessuna regione della Tunisia si sono svolte ancora elezioni amministrative.
In tutte le delegazioni del governatorato di Siliana negli ultimi tre giorni migliaia di persone hanno partecipato allo sciopero generale indetto dal sindacato Ugtt. Ieri nel corso della manifestazioni migliaia di giovani, studenti e disoccupati sono stati dispersi dalle forze dell’ordine che hanno sparato, oltre che lacrimogeni e proiettili di gomma, anche proiettili di piombo con fucili da caccia(Rach) provocando oltre 200 feriti, anche gravi, di cui circa 20 rischiano di perdere la vista.
La manifestazione a Tunisi, indetta dagli studenti,è partita dal centro della città e si è diretta di fronte al Ministero dell’Interno, interamente circondato da mezzi blindati e filo spinato, piazzato nel corso della notte dai militari.
Una giovane donna spiega i motivi della protesta: "non si può accettare la repressione contro chi protesta per i propri diritti come a Siliana. Noi non torneremo indietro"

Dopo diverse ore di fronteggiamento tra le centinaia di poliziotti che presidiavano il palazzo e i manifestanti, sono partite delle violente cariche chesono sfociate in una vera e propria caccia all’uomo nelle vie che costeggiano l’arteria principale del centro di Tunisi, Avenue Bourghiba, in cui la polizia ha picchiato selvaggiamentee indiscriminatamente i manifestanti e alcuni tra i giornalisti presenti.
Nel corso della manifestazione sono stati scanditi ininterrottamente i cori che richiamano direttamente al periodo della rivoluzione, primo tra tutti il celebre ”Dégage” che è stato il simbolo della cacciata del dittatore Ben Ali, questa volta indirizzato al ministro dell’interno, diretto responsabile della violenta repressione di Siliana.
Nelle prossime ore si attende a Tunisi l’arrivo di una marcia degli abitanti di Siliana che porterà davanti ai palazzi del potere della Capitale la richiesta delle dimissioni del governo attuale, che ricalca medesime modalità del precedente regime.
Le manifestazioni di questi giorni e le drammatiche immagini dei feriti di Siliana hanno obbligato il Governo a fare un passo indietro sull’uso delle cartucce da caccia Rach.
La Rivoluzione de Gelsomini, che è stata un propulsore anche delle rivoluzioni in Egitto e in Medio Oriente si configura sempre più come incompiuta, e la transizione democratica appare ogni giorno più lontana. Ma se finora la popolazione tunisina è stata in fiduciosa attesa di un cambiamento che non c’è stato, d’ora in avanti sembra pronta a riconquistarsi il proprio futuro.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!