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martedì 29 maggio 2018

SudAfrica - Costruiamo case, ma non ne abbiamo

Christopher è un muratore, Immanuel fa l’elettricista, Talitha e Johanna sono domestiche: insieme a migliaia di persone vivono nelle baraccopoli del Sud Africa e fanno parte del movimento Abhalali baseMjondolo. Immanuel ha contribuito a costruire il Mall of Africa, il più grande centro commerciale del continente, ma vive in una baracca a Good Hope, appena fuori Johannesburg. “Costruiamo le vostre case, ma non ne abbiamo nessuna”. Ogni giorno quelli di Abahlali lottano per difendere la terra delle proprie baracche, occupano terre abbandonate e cominciano a tirar su gruppi di case, con almeno una scuola e un centro medico, senza aspettare gli interventi dello Stato o delle amministrazioni comunali. Oltre a sperimentare impensabili forme di autogestione e a rifiutare l’uso della violenza nelle loro proteste, il movimento è noto perché a mettere i corpi in gioco nelle occupazioni, oggetto di continue repressioni, sono per lo più donne. Sono le gogos e le mamas, cioè le nonne e le madri, racconta Vijay Prashad  “che stanno costringendo il Sud Africa a essere un società decente...”. Il mondo dei nessuno non smette di creare speranza 

In questa pagina, alcune foto sulla vita del movimento sudafricano Abahlali baseMjondolo tra occupazioni, assemblee, proteste, incontri di formazioni autogestiti

di Vijay Prashad*

Talitha e Johanna sono domestiche. Guadagnano 150 Rand (1 R equivale a 0,0676 euro, Ndt) al giorno che è il prezzo di un gallone (4,5 litri) di latte, di una libbra di formaggio, di una pagnotta di pane, e di quattro arance. Potrebbero mangiare soltanto per un giorno, ma questo è quanto. Mi sorridono quando chiedo loro come riescono a tirare avanti. Johanna dice: “A fatica”.

Vivono nella baraccopoli di Good Hope, un pezzo di terra trafficato, a Germiston, appena fuori Johannesburg (Sud Africa). Le loro case sono provvisorie e si chiamano baracche in questa parte del mondo. Questi “ricoveri” sono a ridosso l’uno dell’altro. Non hanno alcuna protezione dalla pioggia e non offrono alcuna privacy. La mancanza di impianti igienici significa che i liquami scorrono nelle stradine strette. Significa anche che le malattie sono una preoccupazione costante.



Christopher fa funzionare pesanti macchinari per una società di costruzioni. Guadagna 6.000 R al mese che, però, svaniscono prima che il mese è finito. I soldi per l’affitto (1.200 R), e il denaro per portare suo figlio a scuola (1.850 R), gli portano via metà del suo guadagno. Il resto sparisce quando paga l’acqua e il gas, il cibo e i vestiti. “Di solito bevevo – mi dice Christopher – ma ora non i soldi per questo”.

Immanuel fa l’elettricista. Ha contribuito a costruire il Mall of Africa, il più grande centro commerciale che è stato costruito sul continente, ma non ha una casa. Vive in una baracca a Good Hope. “Costruiamo le vostre case, ma non ne abbiamo nessuna”.

Incontro Talita, Johanna, Christopher e Immanuel su un pezzo di terra arido di proprietà della Witwatersrand Gold Mining Trust. Da lungo tempo questa terra non è stata usata per nulla di produttivo. All’orizzonte c’è il vecchio impianto di lavorazione dell’oro. I lavoratori, però, non portano più fuori l’oro da questa terra. L’oro è quello che ha fatto guadagnare soldi a Johannesburg. La terra ora è vuota.

Al di là della strada c’è l’Insediamento di Buona Speranza (Good Hope). Talita, Johanna, Christopher e Immanuel operano con la “succursale” di Good Hope del movimento Abahlali baseMjondolo (un’espressione in lingua zulu che significa abitanti delle baracche). Si sono incontrati nel corso del 2017 per programmare la loro occupazione della terra abbandonata della Mining Trust.  Prevedono, secondo quanto dice la loro leader Nomnikelo Singenu – che saranno in grado di costruire cinquecento case su questo terreno e anche una scuola e un centro medico. C’è uno stato d’animo di entusiasmo e di tensione.



Lo Stato
Non lontano da dove stiamo parlando, si raduna la polizia. C’era stata il giorno precedente e aveva distrutto i picchetti che demarcavano il terreno per le case. La violenza è il modo di esprimersi della polizia. Hanno raccolto i miseri effetti personali degli occupanti delle baracche e li hanno bruciati in una buca. Oggi, secondo giorno dell’occupazione, la polizia sembra meno furiosa.

domenica 2 luglio 2017

Marocco - Le proteste del Rif si allargano a tutto il paese



Sono in sciopero della fame i portavoce della protesta del Rif, incarcerati dal Governo nelle scorse settimane per le manifestazioni che si susseguono dallo scorso dicembre dopo la morte di Mohssine Fikri, pescivendolo ambulante di Al Hoceima, triturato in un camion della spazzatura mentre cercava di recuperare i 500 chili di pesce spada confiscati dalla polizia.
La mobilitazione continua ad allargarsi come se il movimento della zona del Rif desse voce ad un malcontento che non riguarda solo le zone periferiche.
Come accade ovunque ed in particolare nel contesto mediorientale e nordafricano, le vicende sociali hanno molte sfaccettature. Per questo approfondire quel che accade è importante per non avere uno sgurado superficiale. 




Il Marocco è un paese in cui la monarchia ancora non è stata messa in discussione e il giovane sovrano Mohamed VI è riuscito fino ora a passare indenne, usando il bastone e la carota, attraverso l’onda delle cosiddette primavere arabe.
Ma corruzione, accentramento di ricchezze e poteri, squilibri sociali, mancanza di giustizia permangono esprimendosi in quel senso di insofferenza che viene chiamato “hogra” e che racchiude tutta la distanza e la mancanza di fiducia soprattutto dei giovani nel sistema. Esprimere il proprio dissenso, scendere in piazza oggi diventa ancora più difficile alla luce della crisi, della guerra, della percezione di paura che si vive in tutto il mondo e con le proprie particolarità in tutta la zona che va dal Marocco all’Iran.

Le proteste partite dal Rif, zona periferica del Marocco, sono state l’occasione per riprovare a scendere in piazza. Tutto non è lineare e facilmente leggibile, tanto è vero che numerosi articoli raccontano di come gruppi islamici radicali si siano inseriti dentro le proteste. Tutto questo in uno scenario in cui nelle scorse elezioni il partito dell’islam politico, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, ha riottenuto la maggioranza trovando modo di convivere bellamente con la monarchia al di là della formale opposizione. Tanto è vero che oggi il paese è governato da una coalizione di sei partiti tra cui il Rassemblement national des indépendants, guidato da un uomo d’affari che i commentatori definiscono essere molto vicino al re.

Per approfondire quel che succede vi proponiamo alcuni articoli usciti negli ultimi mesi, nella convinzione che come sempre capire è importante anche per trovare le strade per sostenere chi realmente prova a cambiare le cose, e non chi lo fa strumentalmente per mantenere intatto il sistema, anche cambiandogli il vestito.


Il Rif

La protesta, partita all’indomani della morte del pescatore Mohssine Fikri, affonda le sue radici nella situazione del Rif: si tratta di una zona che ha sempre avuto dissensi col governo centrale, tanto è vero che il secolo scorso, durante la guerra coloniale con la Spagna, aveva proclamato una breve indipendenza sotto la guida berbera. È una zona dove più forti sono povertà ed emarginazione.
Il padre dell’attuale re Mohamed VI, Hassan II diceva che c’è un Marocco utile e un Marocco inutile. Ed è proprio a causa del suo passato secessionista che la regione del Rif non rientrava fra le zone territoriali che avevano il suo favore. Dopo i movimenti del 1984 lanciati dagli studenti, Hassan II aveva deciso di escludere la regione del paese dai piani di sviluppo.
Nelle montagne aride la popolazione vive soprattutto di coltivazione di cannabis. Dopo l’arrivo al potere, Mohamed VI aveva proclamato di voler avviare un piano di riconciliazione con gli abitanti di questa regione berbera, ma la realtà continua ad essere quella di una mancanza di risorse locali che fanno aumentare la frustrazione: il tasso di disoccupazione è del 21%, cioè il doppio di quello nazionale.


Cronaca

28 Ottobre 2016
Mohssine Fikri pescivendolo ambulante di Al Hoceima (città situata a Nord nella regione settentrionale del Rif), muore stritolato nel tritarifiuti del camion dell’immondizia mentre protestava contro la requisizione della sua merce confiscata ingiustamente dalla polizia. La tragica morte ripresa con un cellulare e postata sui social network, da il via ad una rivolta, le cui rivendicazioni affondano nella situazione di marginalità della regione, che si propaga viralmente nelle zone limitrofe, arrivando in pochi giorni ad attirare anche l’interesse della stampa internazionale.


10 Dicembre 2016
Durante la giornata internazionale per i diritti umani ad Al Hoceima si svolge una grande manifestazione che riempe le vie della città. Tra media locali, attivisti e manifestanti si calcola che ci fossero all’incirca 100 mila persone. Si protesta per chiedere autonomia, diritti e libertà reali.


Da dicembre ad aprile
Continuano presidi e iniziative in uno stato di mobilitazione continua. Il Governo risponde con lo stato d’emergenza e la militarizzazione della zona. La protesta trova appoggio in tutto il paese, diventando il simbolo della generale insoddisfazione. Nasser Zefzafi, un disoccupato della zona, viene descritto nei media come il portavoce della protesta ed in molte occasioni arringa la folla durante le iniziative, rilascia interviste non solo ai giornali nazionali. La sua immagine inizia a circolare anche all’estero.


7 Aprile 2017
Il tribunale di prima istanza di Al Hoceima condanna con pene tra i cinque e gli otto mesi sette persone coinvolte nella morte di Fikri, ovvero gli agenti intervenuti durante la morte del pescatore. E’ una sentenza che fa ulteriormente crescere la protesta: è come se lo stato si fosse assolto dalle colpe, alla base di quel che è successo. Gli organizzatori delle proteste reclamano soprattutto miglioramenti economici e sociali. Dopo la sentenza un attivista dichiara: “stiamo chiedendo da mesi la costruzione di un ospedale specializzato nella cura del cancro, la creazione di un’università e l’abolizione del decreto del 1958 con il quale si considera Al Hoceima una zona militarizzata”.


14 Maggio 2017
Sei partiti della maggioranza di governo, capeggiati dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo ( partito islamico al potere) pubblicano un comunicato nel quale accusano chi protesta di “promuovere idee distruttive che seminano discordie” e peggio ancora di essere “separatisti”. Tutto questo è parte di una generale campagna di diffamazione che cerca di screditare chi protesta e nasconderne le profonde ragioni.


18 Maggio 2017
Viene convocato uno sciopero generale e migliaia di persone scendono in piazza con lo slogan: “Siete una mafia, non un governo”. Sei mesi dopo l’inizio delle proteste, la tensione non si placa.




Fine maggio 2017
Di fronte al permanere della protesta. Il Governo cerca di mostrare un volto conciliante.Una delegazione di ministri ed esponenti di istituzioni pubbliche si recano al Rif annunciando progetti sociali, educativi e nuove infrastrutture ma nessuna concessione politica e culturale. Promettono l’apertura di una sede distaccata dell’università di Tangeri ad Al Hoicema, la riqualificazione delle scuole, l’assunzione di 500 professori, la ristrutturazione e l’acquisto di un centro oncologico e annunciano la scelta da parte dello Stato di investire 900 milioni di euro nella regione.

Mentre il Governo vuole apparire conciliante a rompere il clima di pseudo tregua ci pensa il Ministro degli Affari Islamici, Ahmed Taofiq, che impone per la preghiera del venerdì a tutti gli imam di rimproverare i giovani ribelli, accusandoli di fomentare la “fitna”, ossia lo scontro tra musulmani.
All’ordine del Ministro gli imam obbediscono.

A Hoceim Nasser Zefzafi interrompe l’imam durante la preghiera del venerdì nella principale moschea della cittadina, accusandolo di utilizzare la religione a fini politici. Dopo essere duramente intervenuto, accompagnato da molti giovani, ritorna a casa.
Contro di lui viene spiccato un mandato di arresto . I reati sono l’aver ostacolato la libertà di culto, impedito al imam di parlare e aver insultato la religione, perturbando la tranquillità e sacralità del culto.
Nasser scappa da casa per fuggire all’arresto e diffonde un video sui social network assicurando che sta bene e appellandosi ai giovani perchè continuino in modo pacifico le manifestazioni.
Di fronte alle provocatorie accuse contro il portavoce della protesta, la tensione sale e ci sono scontri con la polizia, durante i quali vengono arrestati una ventina di ragazzi.

Nasser Zefzafi viene arrestato il 29 maggio. L’accusa è di minaccia alla sicurezza nazionale per aver interrotto il sermone dell’imam. Nel momento dell’arresto molte persone cercano di difenderlo. “L’imam stava parlando contro il nostro movimento. Ci accusa di destabilizzare il paese, di causare divisione. E Nasser ha preso parola per dire che dovrebbe dedicarsi a parlare di religione e non di politica. Stavano cercando un pretesto per arrestarlo”, dicono i manifestanti.
Le manifestazioni dopo gli arresti si fanno più dure.“Nasser, ti difendiamo con la vita e con il sangue”, gridano i manifestanti. A prendere il posto di Nasser come portavoce e simbolo della protesta è Nawal Ben Aissa, una giovane donna. Durante le manifestazioni cresce il numero delle donne che partecipano.

3 Giugno
Nel fine settimana la procura di Al Hoceima ordina l’arresto di un’altra ventina di attivisti. L’accusa per tutti è di “attentare alla sicurezza interna dello Stato, incitare a commettere delitti e crimini, umiliare i funzionari pubblici durante lo svolgimento del loro lavoro e commettere ostilità contro i simboli del Regno nelle riunioni pubbliche”. Proteste contro la repressione e a sostegno degli attivisti del Rif si svolgono anche in altre città del paese. 




11 Giugno 2017
Più di 10 mila persone manifestano a Rabat. La protesta è convocata dal movimento islamico illegale ma tollerato “Giustizia e Spiritualità”, vi partecipano anche partiti di sinistra e forze islamiche interne alla coalizione di governo.
Come spesso accade in piazza si ritrovano tutti quelli che hanno motivi di risentimento e protesta contro il governo, al di là delle rispettive appartenenze. Cosa questa per certi versi naturale ma foriera di grandi contraddizioni visto che il vecchio slogan "chi è nemico del mio nemico è mio amico" non sempre porta a grandi risultati,. Per cui nella stessa piazza ci sono islamici radicali, sindacati di sinistra e organizzazioni civili. Ci sono anche esponenti del Movimento "20 febbraio", ovvero quello che ha dato vita in Marocco alle proteste del 2011 durante la primavera araba. Uno di loro afferma “Quello che succede nella regione del Rif è di una gravità eccezionale visto il decreto di militarizzazione della regione e il decreto di emergenza. Non siamo più nel momento delle promesse del re del 2011".


Da metà giugno ad oggi
Il 14 giugno arriva la condanna a 18 mesi di carcere per i primi 25 attivisti. Una condanna dura se comparata ai 5 o 8 mesi dati a chi a partecipato alla morte di Mohssine Fikri. Ne seguiranno altre. Gli avvocati che difendono i manifestanti dichiarano “ la maggior parte dei condannati è accusato di aver manifestato senza autorizzazione gli ultimi giorni di maggio, dopo l’ordine di arresto di Nasser."
In occasione della conferenza stampa davanti al Tribunale l’avvocato di Nasser denuncia che il suo assistito ha subito violenze fisiche e morali, come il fatto che al momento dell’arresto, in modo dispregiativo sia stato definito “figlio di spagnoli”.
La notte le manifestazioni a Al Hoceima diventano più dure e viene proclamato uno sciopero generale per il fine settimana.

Un gruppo di detenuti inizia lo sciopero della fame in segno di protesta. Tra loro oltre a Nasser anche Mohamed Jellou, scarcerato da poco, dopo cinque anni di carcere per aver partecipato alle proteste del 2011.
Mentre nel paese la tensione cresce si svolge la visita del neo presidente francese. A Macron le organizzazioni dei diritti umani francesi inviano un comunicato per chiedere che venga condannata la repressione attuata dal governo marocchino. Alla conclusione della visita ufficiale Macron dichiara di aver visto il re molto attento a quel che succede, Ovviamente nelle dichiarazioni ufficiali non c’è traccia dei temi collegati ai diritti umani.
Proteste sono previste per la fine di giugno ed è stato convocato un nuovo sciopero generale.


NASSER ZEFZAFI

Quasi otto mesi fa, quando iniziarono le proteste per la morte del pescivendolo triturato in un camion della spazzatura, nessuno in Marocco conosceva Nasser Zefzafi. Era semplicemente un disoccupato, dopo essere stato strozzato dai debiti del fallimento di una piccola attività di riparazione di computer e telefoni.
Presente fin da subito nelle proteste, ne diventa il portavoce. Viene intervistato soprattutto dalla stampa internazionale, i suoi discorsi vengono ascoltati in piazza. Viene definito il leader del movimento. Diventa ancora più famoso quando a fine maggio interrompe il sermone dell’imam per denunciare quel che sta accadendo e viene denunciato ed arrestato.
C'è chi lo definisce un semplice disoccupato salito alle cronache, chi ne parla come appartenente a gruppi islamici radicali, chi addirittura lo definisce un provocatore al soldo degli spagnoli, chi semplicemente ne parla come un pazzo o un esagitato.


Proviamo a vedere cosa dice lui stesso in una lunga intervista realizzata da Diagonal lo scorso 4 aprile.

L’intervista parte dall’episodio scatenante, la morte di Mohssine Fikri. Nasser afferma: “Quello che è successo a Mohssine non è la prima, né non sarà l’ultima volta che accadrà (…) Ripeto, Mohssine è la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che ha portato le persone a combattere contro la hogra (…) Dalle prime indagini emerse come un fatto senza molta importanza. Questo invita a pensare che ci sia qualcosa di più grande, che implica personaggi importanti (...) Noi siamo manifestanti e come tali chiediamo un’indagine corretta. La gente che scende in piazza esige verità e che le indagini siano pubbliche per vedere chi si è sporcato le mani.”
Riferendosi al movimento di cui è portavoce e alla situazione attuale dice: “Chiediamo servizi pubblici, lo sviluppo della nostra economia, la fine della corruzione, che se ne vadano soldati e polizia. Quello che chiediamo non è diverso da quello che si chiede nel resto dello Stato. In questa terra (Rif) non si ha nulla, nè sviluppo economico, politiche che lo incentivino, università e nemmeno ospedali specializzati nell trattamento del cancro causato dalle armi chimiche spagnole nella guerra del 1921. Chiediamo questo per il Rif perché è dove viviamo e non c’è nulla, manca tutto”.
L’intervista continua con un giudizio sul comportamento del governo, che a parole si mostra condiscendente: “lo fanno per cercare di dare un esempio positivo e di rispetto per i diritti umani. Non dimentichiamoci che le mobilitazioni che stanno avendo luogo ora sono seguite in tutto il mondo e per quello non possono fare nulla (... )".
L’intervista termina con propositi sul futuro: “..possono incarcerarci e farci qualsiasi cosa, a me come alle altre persone che scendono in strada. (...) Se moriamo, che sia per la nostra terra e i nostri diritti”.


Nawal Ben Aissa

Casalinga di 38 anni, moglie di un tassista, madre di quattro figli. Una donna comune, che dopo l’arresto di Nasser viene indicata dai media come la nuova portavoce del Movimento Popolare.
Venuta a conoscenza della tragedia del pescivendolo tramite Facebook e interessata dall’impatto sociale delle proteste, inizia a studiare la storia e le rivoluzioni che hanno avuto luogo ad Al Hoceima. Decisa ad ascoltare i problemi dei rifeños (popolazione del Rif), scende direttamente nelle strade. Fa la sua prima apparizione pubblica l’8 Marzo, al fianco di Nasser.


Riportiamo brevemente le sue dichiarazioni in un’intervista realizzata da El Mundo lo scorso 12 giugno.
Inizia raccontando che “al principio si trattava di un movimento tranquillo e familiare, portavo anche i miei bambini”.
Parlando della sua istruzione dice: "Non ho avuto la possibilità di poter scegliere se studiare o meno. Qui alle bambine è già tanto se si arriva a mandarle alla secondaria ...".
Sono chiari nella sua testa i motivi che spingono la protesta: " costruire un’università, e dei programmi di inserimento per i lavoratori”.

A proposito dell’atteggiamento del governo dice: "Quando abbiamo iniziato le proteste, il governo si è dimostrato a favore delle nostre domande e si è impegnato a prendere in considerazione le nostre richieste. Poco dopo, senza che sapessimo il perché, hanno iniziato a detenere le persone in modo indiscriminato anche se non avevano niente a che vedere con il movimento.”
La giovane donna è stata accusata di essere parte di un gruppo indipendentista finanziato dal Fronte Polisario e dall’Algeria. Lei risponde: "Non è vero. Siamo patrioti e amiamo il nostro re, Mohamed VI, abbiamo la speranza che venga qui e veda che le nostre proteste sono pacifiche e riguardano tutto il Marocco, non solo il Rif."
Uno degli aspetti che più la preoccupa è il drammatico stato della sanità nella regione del Rif, dove il numero di patologie oncologiche è elevato. Lee cause risalgono al 1921 quando l’esercito spagnolo ha usato nella regione armi chimiche. La Spagna non ha mai negato di averle utilizzate, ma non l’ha mai riconosciuto ufficialmente.
Ad Al Hoceima c’è un ospedale oncologico molto piccolo, insufficiente per far fronte al problema. Nawal lo conosce molto bene, ha intervistato i malati facendo dei video e divulgandoli sui social grazie ai quali molta gente ha fatto offerte anonime per aiutare i malati a pagare i trattamenti.
“Non chiediamo l’ospedale più grande del mondo, o con le migliori tecnologie, vogliamo solo una struttura sanitaria adeguata”.

Nel chiudere l’intervista Nawal denuncia il clima di controllo: “il livello di repressione e la mancanza di libertà di espressione sono estreme. La cosa peggiore è che stanno soffrendo anche i miei figli, non vogliono che esca di casa perché non sanno se ritornerò”. 

giovedì 26 gennaio 2017

Siria - Al Hol, il paradossale corridoio umanitario che dall’Iraq porta in Siria


Sulla guerra in Siria e sulla situazione irachena si allungano le ombre dei nuovi scenari geopolitici post insediamento di Trump, che non ha mai nascosto la sua amicizia ed identità di vedute con Putin oltre al sostegno aperto ad Israele, mentre Erdogan continua la sua politica di aggressione fronteggiandosi indirettamente con Iran e Arabia Saudita per l’egemonia regionale.
Ma cosa sta succedendo alle popolazioni civili siriane ed irachene strangolate dai vari fronti di guerra?
Ce lo racconta Un Ponte Per ..., l’organizzazione italiana impegnata nel sostegno alle popolazioni civili in questa area devastata del nostro pianeta.
Al Hol, il paradossale corridoio umanitario che dall’Iraq porta in Siria
Al Hol è un villaggio sperduto in un’area semideserta della Siria, a pochi passi dalla frontiera con l’Iraq. Negli ultimi mesi qui sono fuggiti migliaia di iracheni a seguito della battaglia di Mosul. Una delle possibili vie di fuga dalla città infatti porta solo verso la Siria.
Al Hol è un luogo tristemente noto perché qui sono rimasti bloccati per anni i palestinesi fuggiti dall’Iraq dopo il 2003 e che nessuno voleva accogliere. Per anni hanno atteso un paese ospitale. Il campo ha anche ospitato le centinaia di migliaia di iracheni che tra il 2006 e il 2008 sono fuggiti verso la Siria per non soccombere nella guerra civile che dilaniò il paese.
Poi il campo si è svuotato, e dopo il 2011 è diventato luogo di battaglie tra Daesh (Stato Islamico), le altre forze estremiste e i combattenti curdi. Oggi il campo è tornato a servire i rifugiati, invece di essere chiuso o di diventare un museo per la memoria. Con tutto il dolore che portano le sue mura e le sue strutture cadenti è stato riattivato per ospitare, a oggi, più di 15mila iracheni. In prevalenza minori, 2.500 a dicembre, 500 neonati. E donne.
Una popolazione in fuga dal Daesh, dopo averne subito l’occupazione per due anni. Il paradosso è che non possono fuggire in altre aree dell’Iraq, la strada più semplice è quella verso la Siria. L’amministrazione autonoma del nord-est siriano, l’area a maggioranza curda del paese chiamata Rojava, sta facendo uno sforzo eccezionale per accoglierli.
Le autorità locali stanno già ospitando centinaia di migliaia di sfollati interni siriani. E stanno assistendo le persone in fuga da Raqqa, in Siria. Non hanno né i soldi né la possibilità concreta di gestire un flusso di rifugiati da un altro paese. E invece ci danno una grande lezione di dignità e solidarietà. Il campo è stato riattivato, con il sostegno dell’Unchr.
Un ponte per... e la Mezzaluna Rossa Curda hanno costruito un centro di salute di base da campo che sta accogliendo ogni giorno centinaia di persone. Un’ambulanza delle due organizzazioni ogni giorno raggiunge il valico di frontiera tra Iraq e Siria di Rajm Sleby e da lì porta in ospedale o al campo i casi più difficili.

Ma al valico i controlli sono attentissimi. Il pericolo di infiltrazione di Daesh è alto. Spesso sono necessarie lunghe negoziazioni per portare in salvo le persone. Molte arrivano in condizioni disperate. Sono più di 100 i disabili arrivati negli ultimi mesi. E tra i bambini sono evidenti i molti casi di malnutrizione. Mancano molti generi di prima necessità e le sole cure mediche senza una adeguata infrastruttura di assistenza sono una risposta troppo limitata.
Gli operatori al campo di Al Hol e l’ambulanza in frontiera fanno i salti mortali per evitare il peggio a molte persone. Quando il servizio non c’era, a ottobre, su quella stessa frontiera sono morti due bambini. Casi del genere non si sono più verificati, ma siamo ancora lontani da un minimo di normalità. Nel campo le latrine sono in costruzione, l’acqua scarseggia in tutta la zona, cumuli di immondizia costellano le strade di polvere.
Donne e bambini si affollano nella sala d’attesa del nostro centro sanitario perché è uno dei pochi luoghi protetti, anche quando non hanno bisogno di una visita. Per le emergenze le ambulanze della Mezzaluna Rossa Curda corrono all’ospedale di Hassake, distante 50 chilometri, ma anche lì la situazione è drammatica. Dalla Siria sono fuggiti migliaia di medici, e i pochi ospedali rimasti aperti sono al collasso.

domenica 22 gennaio 2017

Arabia Saudita - Raif Badawi compie 33 anni nelle carceri del nostro alleato a cui vendiamo armi.



Il 13 gennaio Raif Badawi, blogger saudita incarcerato e condannato a 1000 frustate nel 2014, ha compiuto 33 anni.
Il compleanno lo ha passato nelle carceri in cui continua ad essere rinchiuso, nonostante il suo caso sia ormai evidentemente una pura rappresaglia da parte del governo dell’Arabia Saudita nei confronti di chi ha una sola colpa: aver provato a dire o meglio scrivere delle parole libere.
Il compleanno di Raif è stata l’occasione in diverse città nel mondo per protestare sotto le ambasciate dell’Arabia Saudita. 
Dal Canada la moglie ha rilanciato la campagna per la libertà di Raif e del suo avvocato, anche lui finito nelle carceri saudite per aver semplicemente fatto il suo lavoro, cioè tentare di difendere legalmente il giovane blogger.
La libertà e i diritti umani non sono rispettati nell’Arabia Saudita, il paese che, paradossalmente, presiede il comitato consultivo del Consiglio Onu dei diritti umani che ha il compito di indicare gli esperti sui diritti umani.
Un bell’esempio di coerenza della comunità internazionale!
"Loro ci vendono il petrolio, noi gli vendiamo le armi", sintezza così un manifestante a Londra davanti all’Ambasciata dell’Arabia Saudita il legame vero che c’è tra occidentali e la monarchia saudita.
Armi che arrivano anche dalle imprese italiane come denunciato dalla Rete Disarmo.

RAIF BADAWI’S ORDEAL

giovedì 8 dicembre 2016

Egitto - Arrestata attivista per i diritti delle donne

Egitto: arrestata nota attivista per i diritti delle donne
Azza Soliman
Azza Soliman, fondatrice del Centro di assistenza legale alle donne egiziane, è stata arrestata questa mattina al Cairo in quello che per Amnesty International è il segnale di una ancora più marcata repressione nei confronti degli attivisti per i diritti umani.
“L’arresto di Azza Soliman è l’ultimo raggelante esempio della sistematica persecuzione in atto ai danni dei difensori dei diritti umani. Riteniamo che sia stata arrestata a causa delle sue del tutto legittime attività in favore dei diritti umani e che debba essere rilasciata immediatamente e senza alcuna condizione. Le intimidazioni e le persecuzioni contro gli attivisti per i diritti umani devono cessare” – ha dichiarato Najia Bounaim, vicedirettrice per le campagne presso l’Ufficio regionale di Amnesty International di Tunisi.
Tre settimane fa, le autorità avevano congelato i conti bancari di Azza Soliman e della sua organizzazione, senza alcuna decisione giudiziaria, e il 19 novembre le avevano impedito di recarsi in Giordania per prendere parte a un seminario di formazione sui diritti delle donne nell’Islam.
Il mandato d’arresto di Azza Soliman è stato firmato da uno dei giudici incaricati delle indagini sulle organizzazioni non governative (Ong) egiziane, conosciuto come il caso 173/2011. Il giudice deciderà se ordinare il suo arresto o il rilascio su cauzione.
“Azza Soliman, insieme ad altri difensori dei diritti umani, è già sottoposta a un divieto di espatrio e al blocco dei conti bancari. Il suo arresto segna un’escalation nell’uso di tutta una serie di tattiche repressive che hanno lo scopo di intimidire e ridurre al silenzio lei e altre voci critiche” – ha commentato Bounaim.
“Il rischio è che al suo arresto seguano analoghi provvedimenti nei confronti di altri difensori dei diritti umani coinvolti in quell’inchiesta” – ha aggiunto Bounaim.
Nel giugno 2014, 43 operatori stranieri ed egiziani di Ong erano stati condannati a pene da uno a cinque anni. Erano state chiuse anche alcune Ong, tra cui Freedom House e il Centro internazionale per i giornalisti.
Lo scorso anno, la magistratura egiziana ha intensificato le pressioni sui gruppi per i diritti umani, attraverso divieti di espatrio e il congelamento dei patrimoni bancari, per reprimere la libertà di espressione, di associazione e di manifestazione, con l’obiettivo finale di smantellare il movimento per i diritti umani in Egitto e stroncare anche il più timido segno di dissenso.
Il presidente al-Sisi potrebbe presto firmare una nuova, durissima legge sulle associazioni che conferirebbe al governo e alle forze di sicurezza poteri straordinari sulle Ong.
Azza Soliman ha fatto parte di un gruppo di 17 persone arrestate per aver testimoniato sull’omicidio di Shaimaa al-Sabbagh, un’attivista uccisa al Cairo nel gennaio 2015 durante una manifestazione pacifica. Accusata di manifestazione non autorizzata e disturbo all’ordine pubblico, Azza Soliman era stata assolta a maggio e, dopo il ricorso della pubblica accusa, nuovamente a ottobre.

mercoledì 8 giugno 2016

Arabia Saudita - #FreeRaif - La mia lotta per salvare Raif Badawi


Pubblicato a maggio il libro di Ensaf Haidab, la moglie del blogger Raif Badawi, condannato alla pena disumana di 1000 frustate e dieci anni di carcere nel maggio 2014 per oltraggio all’Islam.

La donna, che insieme ai figli vive in Canada dopo essere stata costretta a scappare, ha scritto insieme a Andrea C. Hoffmann, scrittrice e giornalista tedesca, un libro che è una chiara ed appassionata denuncia di quel che avviene in Arabia Saudita.


La persecuzione contro Raif si è allargata a tutta la sua famiglia tanto è vero che la sorella Samar Badawi, in gennaio è stata arrestata e poi rilasciata.


La storia di Raif
Dopo la prima parte dell’esecuzione, le prime 50 frustate inflitte nel gennaio 2015, sull’onda delle proteste internazionali, viste le sue condizioni di salute, Raif non è stato più colpito fisicamente ma continua ad essere incarcerato in attesa di subire la continuazione del flagello.


Poco o niente si sa della sua condizione. Le poche notizie che filtrano dalle mura del sistema carcerario saudita dicono che Raif ha portato avanti negli scorsi mesi uno sciopero della fame durato una ventina di giorni per opporsi ad un trasferimento. 


Per il resto tutto tace. O meglio il Governo dell’Arabia Saudita è totalmente impermeabile alle critiche che gli giungono sul tema dei diritti umani.

Ipocrisie internazionali

Al giovane scrittore è stato assegnato il Premio Sacharov. A livello internazionale in particolare dal Canada, dove risiede la moglie Ensaf Haidar, continua ad essere alimentata la campagna internazionale per la liberazione di Raif.

L’ipocrisia che copre tutta la vicenda si intreccia con gli interessi multilevel che troppi paesi hanno con il potentato che guida l’Arabia.
Le assurdità e contraddizioni sembrano aumentare ogni giorno. Nonostante la ratifica della Convenzione contro la Tortura, i processi continuano ad essere svolti in maniera sommaria, senza il minimo rispetto dei più basilari diritti infliggendo pene disumane, tra cui appunto la flagellazione.
 

L’Arabia Saudita pare tenere particolarmente all'immagine di sé nell'opinione pubblica tanto da aver partecipato, a seguito dell’attentato nella redazione di Charlie Hebdo, alla manifestazione di solidarietà a Parigi, in cui in prima fila hanno sfilato numerosissimi capi di Governo o Ministri, compreso il Ministro degli Affari Esteri saudita. Ciononostante due giorni dopo Raif riceveva, in piazza di fronte ad una folla urlante, le prime cinquanta frustrate della sua condanna. 

L’ipocrisia non ha limiti e infatti l’ambasciatore saudita all’Onu Feisal bin Hassan Trad è stato nominato presidente del Gruppo consultivo del Consiglio per i diritti umani delle nazioni Unite. Ovvero di una struttura che viene considerata la punta di diamante del Consiglio dei diritti umani.

Perché si tace sulla sistematica violazione dei diritti umani in Arabia Saudita?
La questione dei diritti umani in questo nostra contemporaneità, segnata dai giochi delle alleanze mobili, che si muovono nello scacchiere geopolitico del Medi oriente, diventa uno straccetto da sventolare in maniera timida. 


La vicenda di Raif dice più di tante approfondite analisi su quale sia il rapporto del cosiddetto Occidente e non solo con l’Arabia Saudita, formalmente alleato nella guerra al terrorismo, salvo foraggiarlo in maniera indiretta. Stiamo parlando di una potenza che aspira, nel contrasto con l’Iran, in gara con l’Egitto e la Turchia ad essere potenza chiave dell’area. Un paese che con i giochi pericolosi intorno al prezzo del petrolio, sta segnando la sorte dell’oro nero a livello globale, con le sue ricadute in interi continenti come l’America Latina.


La campagna per la libertà di Raif non è un affare locale, è un tema che riguarda vicino tutti noi perché quel che accade in quel pezzo di mondo si intreccia con i nostri destini.



Il mio combattimento per salvare Raif Badawi.

Sin dal primo momento l’impegno di Ensaf a favore della causa e della lotta del marito è stato instancabile e appassionato.
La moglie di Raif ha ormai attraversato tutta l’Europa e molti altri Stati per cercare di riportare il marito a casa e ottenere la sua liberazione, organizzando incontri con rappresentanti dei governi, giornalisti, media, sostenitori della sua causa, oppure partecipando a convegni, manifestazioni e consegne di premi.

giovedì 23 aprile 2015

Yemen - Le responsabilità dell’Occidente nella crisi yemenita

Noon Arabia è una cyber-attivista yemenita. È co-fondatrice del blog collettivo Support Yemen e collaboratrice di Global Voices (qui il suo profilo personale). È molto attiva sul suo account di Twitter e cura il blog Notes by Noon. Osservatorio Iraq ci ha parlato per cercare di capire cosa sta accadendo in queste ore in Yemen, scosso ancora una volta da disordini e caos.

Cosa sta accadendo in Yemen?
Lo scorso 26 marzo è iniziato l’intervento di una coalizione militare araba contro gli Houthi (gruppo di ribelli prevalentemente di religione zaydita, il cui nome omaggia il leader dell’insurrezione del 2004 Husayn Badreddin al-Houthi, ndr).
Bersaglio dei bombardamenti della coalizione (formata dai 6 paesi del Golfo, Giordania, Egitto e Marocco e guidata dall’Arabia Saudita, ndr) sono le basi militari e i depositi di armi dei ribelli, nello Yemen del Nord. In meno di dieci giorni, gli attacchi hanno causato centinaia di vittime civili poichè la maggior parte degli obiettivi dei bombardamenti si trova all’interno di aree residenziali.
Al momento, le milizie di Houthi e di Ali Abdallah Saleh (ex presidente yemenita ora alleato dei ribelli, ndr) stanno marciando però verso sud e sono protagoniste di scontri a fuoco con le forze popolari leali ad Hadi (presidente yemenita ufficialmente riconosciuto dalla comunità internazionale ma di fatto non più al potere da gennaio 2012, ndr).

È opinione comune che quella in corso in Yemen sia una “guerra per procura” tra Arabia Saudita e Iran. Sei d’accordo con questa lettura del conflitto?

La guerra è stata voluta dai sauditi per far arrivare all’Iran il messaggio che sono loro i titolari del potere della zona. L’Iran non è direttamente coinvolto, ma molti ritengono che gli Houthi siano supportati economicamente e politicamente da Teheran. Se non è possibile al momento provare una cosa simile, quello che si può affermare senza dubbio è che non sia in atto una guerra civile o settaria, ma uno scontro regionale per il controllo politico dello Yemen.
Obiettivo principale dei nostri vicini sauditi è proteggere lo stretto di Bab el-Mandeb dal controllo degli Houthi e di Saleh. La posizione dello stretto è strategica, poichè ogni giorno circa 4 milioni di barili di petrolio sono traghettati verso l’Occidente ed una sua chiusura provocherebbe la deviazione delle navi da petrolio intorno al Sudafrica, l’allungamento del relativo viaggio a 40 giorni ed un notevole aumento del prezzo dei barili. La posizione dello stretto spiega anche l’interessamento dell’Egitto: la chiusura di Bab el-Mandeb renderebbe di fatto inutilizzabile il Canale di Suez.

Credi che la comunità internazionale abbia delle responsabilità per la (nuova) crisi yemenita?

venerdì 6 dicembre 2013

Un vincitore è semplicemente un sognatore 
che non si è mai arreso! 





venerdì 8 febbraio 2013

Tunisia - Nella giornata di sciopero generale, migliaia di persone partecipano ai funerali


Fin dalla mattina molte persone si sono concentrate a Djebel Jelloud, quartiere alla periferia per partecipare ai funerali di Chokri Belaid.
A Tunisi la gente comincia ha riempito le strade attraverso cui passa il corpo di Chokri per raggiungere il Cimitero.Ampissima la partecipazione per dire che non si torna indietro, che il cambiamento iniziato due anni fa non si può fermare.
Continuano le denunce sulle coperture date all'omcidio visto che l'esponente laico aveva denunciato più volte le minacce nei suoi confronti. Questo non gli aveva impedito di continuare a denunciare il ruolo di Ennadha al governo nel contrastare le vere riforme che la popolazione chiede.
Oggi è sciopero generale convocato dalle forze d'opposizione e dal sindacato UGT. I negozi sono chiusi e i voli in arrivo e partenza dal paese sono bloccati. Avenue Bourghiba è deserta con decine di esercizi commerciali e di caffè con le saracinesche abbassate.
La polizia presidia in particolare oltre alla capitale le città di Zarzis, Gafsa e Sidi Bouzid. Sono le città dove le proteste sono state più forti durante queste giornate in cui i manifestanti stanno dimostrando quanto forte sia la richiesta di libertà, democrazia e giustizia sociale nel paese.

domenica 3 febbraio 2013

Egitto - Le piazze sono ancora teatro di scontri


Nonostante il coprifuoco e l'attribuzione all'esercito di funzioni di ordine pubblico continuano al Cairo e nelle principali città del delta del Nilo le proteste di piazza con lo strascico di morte e di violenza
Sono stati i violenti disordini davanti al palazzo presidenziale della serata del primo febbraio, durante i quali un ragazzo di 23 anni ha perso la vita, e le immagini riprese da un'emittente satellitare egiziana ad inasprire il livello dello scontro.
Il Fronte di salvezza nazionale ha chiesto che il presidente, il suo ministro dell'Interno e chiunque altro sia coinvolto «negli assassinii, torture e detenzioni illegali» siano sottoposti a processo. Il raggruppamento dei principali partiti di opposizione ha anche detto di sostenere chi in Egitto chiede la fine del «regime tirannico e della dominazione sul potere della Fratellanza». Invocando mezzi pacifici, il Fronte e uno dei suoi leader, Mohamed el Baradei, hanno detto che non molleranno fino a quando non raggiungeranno i loro obiettivi.
Le immagini che mostrano Saber Hamada, imbianchino di 48 anni malmenato dagli agenti e che molti in Egitto hanno associato a quelle della giovane manifestante trascinata seminuda dagli agenti a piazza Tahrir lo scorso anno, hanno scatenato una serie di reazioni dai palazzi del potere, che, con toni diversi, hanno confermato tutte la linea della fermezza nei confronti di «aggressioni e sabotaggi» di edifici pubblici.
La presidenza ha affidato una prima reazione ad uno dei più vicini collaboratori di Morsi Essam el Hadad, il quale ha sostanzialmente detto che quanto è avvenuto a Ittahadeya non era una espressione politica ma criminale. La presidenza ha quindi deciso di correggere parzialmente il tiro in mattinata, probabilmente vedendo montare l'indignazione per il video «della vergogna», come lo ha definito il Fronte di salvezza. Nel comunicato si è detta scioccata e addolorata, e ha rinviato a una inchiesta con la promessa che «nessun resterà impunito».

martedì 29 gennaio 2013

Mali - Prima piromani, poi pompieri


Lo sviluppo di un islam intollerante e bellicoso, nel Sahel, non spunta fuori come un coniglio dal cappello.
di Anne-Cécile Robert - traduzione di Geraldina Colotti *
Deciso «d'urgenza», per «combattere il terrorismo», l'intervento francese in Mali ha il sapore delle cose già viste. Torna in mente soprattutto l'Afghanistan e il discorso brandito dal presidente George Bush con il ben noto successo, visto che le truppe occidentali si ritirano oggi penosamente da quel paese. Con tutta evidenza, non è accettabile che gruppi estremisti portatori di violenza e distruzione avanzino verso la capitale di un paese africano, pena la destabilizzazione ulteriore di una sub-regione già in preda a ogni genere di traffico. Devono essere fermati. Tuttavia, una riflessione costruttiva non può limitarsi a queste considerazioni, per quanto vere. Si correrebbe infatti il rischio di mal interpretare gli avvenimenti e, soprattutto, di consentirne la ripetizione, lì o altrove.

lunedì 21 gennaio 2013

Africa - Un deserto chiamato guerra


Le motivazioni della guerra, nel duplice significato di cause e obiettivi, sono già state sviscerate: il jihadismo, le materie prime, lo spazio, il prestigio, l'impiego di armi vecchie da consumare e di armi nuove da provare.

di Gian Paolo Calchi Novati
[..........]Le motivazioni della guerra, nel duplice significato di cause e obiettivi, sono già state sviscerate: il jihadismo, le materie prime, lo spazio, il prestigio, l'impiego di armi vecchie da consumare e di armi nuove da provare. Nessuna guerra nasce da una sola causa e insegue un unico obiettivo. Senza nemmeno discutere il merito della questione i volenterosi di turno stanno correndo a costituire la solita coalizione. Chissà se come in altri casi, troppo noti per doverli citare, ci sarà anche questa volta un'eterogenesi dei fini. 
E alla poco gloriosa vittoria delle armate occidentali farà da riscontro la vittoria di qualche «terzo incomodo» o a effetti non voluti come nel caso della Libia.
Per il momento i contendenti, usando due termini volutamente propagandistici, sono il «mondo libero» e il «califfato islamico». Di califfato sovranazionale, esagerando, parla Giulio Sapelli in un bell'articolo sul Corriere della Sera del 18 gennaio, su cui si tornerà per contestarne, più che l'analisi, le conclusioni. La crisi scoppiata in Mali riprendeva, adattandoli, temi nati molto prima della war on terror, connessi piuttosto alla secolare tensione fra nomadi e sedentari e più esattamente al processo di costituzione dello stato in un'area tormentata del continente fra Africa araba e Africa nera.

Il fondamentalismo islamico nel Sahel è un fenomeno che dura da tempo e solo di recente ha acquisito gli aspetti anti-occidentali e militarizzati che adesso tutti giudicano intrinseci e preponderanti. Di per sé era una forma di identità culturale e di organizzazione sociale. Il grado maggiore o minore di ortodossia o eresia è importante ma secondario ai fini dei problemi attuali, ormai dominati dallo scontro duale così come definito più sopra.
Una rivolta di alcune migliaia di combattenti bene o male armati in cui si mischiano autonomismo localistico, fanatismo religioso, narcotraffico e criminalità comune, per di più in un territorio periferico, senza sbocchi al mare e senza il controllo di metropoli con un senso per l'economia-mondo che fa capo al Centro, dovrebbe avere un peso molto relativo. Vero è che anche in epoca coloniale - quelli che non credono nella storia si ostinano a non vedere le asimmetrie che l'esondazione dell'Europa fuori dell'Europa con i suoi valori, la sua tecnica e il suo potere ha provocato una volta per tutte - i piccoli incidenti hanno provocato i grandi eventi.

Del resto, il Mali si collega con la Somalia, la Somalia con l'Afghanistan, l'Afghanistan con Al-Qaida. È più raro sentire nell'elenco l'appoggio fornito a vario titolo dall'America prima ai mujaheddin per abbattere il regime pro-sovietico di Kabul e poi ai talebani attraverso il Pakistan, dall'Europa ai militanti islamici della Bosnia e del Kosovo per fiaccare la Serbia o da Israele a Hamas per distruggere l'Olp. Le ragioni della rimozione sono ovvie mentre tornerebbe utile partire dal presupposto che l'islam non è o non è sempre stato il male da esorcizzare con tutti i mezzi ma uno strumento funzionale a certe cause.
Più la singola fattispecie, oggi il Mali o meglio l'Azawad, si configura, per la realtà dei fatti o ad arte, come una sfida che riguarda tutto e tutti, più la reazione andrebbe studiata e modulata con riferimento al quadro generale invece che al micro-contesto. Non per niente alcuni parlano addirittura di pericolo per la «civiltà». [...........] In effetti, se l'Occidente riduce la sua politica alla guerra, crisi dopo crisi, il divario più prezioso fra i «noi» e i «loro» di una certa visione, fra l'Occidente e chi aggredisce l'Occidente, evapora. Guerra contro guerra: una tragica equivalenza. Ognuno ha le sue Torri Gemelle da rinfacciare all'altro.
Riprendendo Sapelli, l'illustre storico ha ragione di vedere l'insorgere di un movimento generale che interpella l'Occidente. La verità però è che il jihadismo è la classica punta di un iceberg che non si esaurisce nelle guerre, che pure esistono. L'Europa dovrebbe riconoscere che il suo modello che - di nuovo, dal colonialismo in poi - era la sua vera forza nei rapporti con Africa e Asia non ha più presa.

In particolare nella vasta area che sempre più riassume in un unico complesso il Medio Oriente e l'Africa settentrionale fino alla Nigeria e alla Somalia il revivalismo islamico è un'alternativa di medio-lungo periodo che premia se mai la Turchia, i Fratelli musulmani o l'Arabia Saudita (meno l'Iran). Questa sì è una presa d'atto su cui conviene meditare per aggiustare le politiche e le alleanze. L'esito delle Primavere arabe sarebbe stato meno imprevedibile. L'unico rimedio non può essere la soluzione militare a pena di un'altra guerra dei cent'anni. Con riferimento al nostro paese, che si appresta a intervenire più o meno alla chetichella forse con la copertura di chi non si vorrebbe, Sapelli commette una duplice scorrettezza. Primo, non esclude la guerra come opzione strategica, senza dire che sarà impossibile farla rientrare nell'autodifesa, sola eccezione al ripudio della guerra di cui alla Costituzione italiana. Secondo, suggerisce cautamente di posporre il dibattito a dopo le elezioni.
tratto da Il Manifesto

venerdì 18 gennaio 2013

Africa - Mali e Azawad: l’unica cosa certa sono le bugie che ci raccontano.


L'11 gennaio 2012 delle "forze armate internazionali”, circa 3300 uomini(tra cui francesi in primis, ma anche statunitensi e tedeschi), si aggiungono alle forze armate del Mali, per “risolvere” la questione dei touareg nel nord, che il 6 aprile 2012 hanno dichiarato formalmente e fisicamente l’indipendenza della regione chiamata Azawad.

di Davide Di Maggio

Dall'intervento militare internazionale contro i touareg ne ero a conoscenza già diversi mesi prima che questo realmente accadesse.
Procediamo con ordine.
Quache mese fa leggevo un articolo su repubblica.it dove si riportava un comunicato dell’attuale presidente ad interim del Mali Dionkunda Traore(divenuto “presidente” dopo un colpo di stato da parte di una giunta militare che ha spodestato Amadou Tourè). In questo comunicato, pubblicato dal sito di repubblica senza un minimo di critica giornalistica o ricerca di altre fonti, il “presidente” chiedeva alla comunità internazionale un “aiuto” al fine di riportare ordine nella regione sahariana dell’Azawad, culla naturale dei touareg.
In questo comunicato il presidente non eletto dichiarava con assoluta certezza che l’Azawad indipendente rappresenta un rischio per tutto il mondo civilizzato, poichè i ribelli in realtà sono estremisti islamici con solidi legami con Al-Qaeda. Sono andato a ricercare le dichiarazioni ufficiali di chi “conta”. Il giorno della dichiarazione d’indipendenza la Francia ha reso noto di considerare “nulla” la dichiarazione “unilaterale d’indipenenza”. L’Ue e gli Usa hanno respinto la secessione assicurando di “voler rispettare l’integrità territoriale del Mali”. Anche dall’Unione Africana è giunto il più “totale rifiuto”. Il tutto giustificato, ovviamente dal fatto che ci fosse lo zampino di Al-Qaeda in mezzo.
Quel giorno mi sono reso conto che ci sarebbe stato sicuramente un intervento militare a breve per mantenere lo status quo.
Ovviamente repubblica.it in quel caso riferiva solo la versione del governo del Mali.
La versione vista dalla parte dei touareg pero’, non solo è molto diversa (e poco pubblicata), ma è, a mio avviso, molto più convincente.

mercoledì 12 dicembre 2012

Tunisia - L’Unione Generale dei Lavoratori Tunisini ha indetto uno sciopero generale nazionale il 13 dicembre per richiedere le dimissioni del Governo.


Proseguono ininterrotte le proteste nel Paese dopo l’attacco dei miliziani islamici alla sede del maggior sindacato tunisino.

L’Ugtt ha indetto lo sciopero generale nazionale in risposta all’aggressione subita alla sede sindacale di Tunisi del 4 Dicembre, compiuta da miliziani della “Lega per la Protezione della Rivoluzione”, l’emanazione più brutale di Ennhadha, il partito islamico al Governo.
In quell’occasione la sede sindacale è stata presa d’assalto da centinaia di miliziani armati di pietre e bastoni, e diversi dirigenti e simpatizzanti dell’organizzazione sono rimasti feriti. L’attacco, certamente premeditato come dimostrano gli appelli che circolavano in rete fino a poche ore prima, è stato compiuto in risposta alla grande mobilitazione di piazza organizzata dall’Ugtt a Siliana, una città situata nell’ovest della Tunisia inserita in una tra le regioni più povere e svantaggiate del Paese. La tre giorni di sciopero generale regionale indetta dall’Ugtt a Siliana ha portato alla destituzione del governatore locale, nipote del primo ministro Jebali. Si è trattato di una evidente vittoria politica per il sindacato.
Ma una risposta in termini politici era evidentemente impraticabile per il partito islamico al potere che ha invece optato per un vero e proprio assalto alla sede sindacale compiuto dalla “Lega per la protezione della Rivoluzione”, scatenando in questo modo un’escalation di tensione che ha portato nel corso della scorsa settimana, in molte città della Tunisia, a diverse manifestazioni di solidarietà nei confronti del sindacato. Hanno partecipato migliaia di persone, soprattutto studenti, che riconoscono nell’Ugtt il simbolo dell’opposizione a qualsiasi forma di regime.
L’Uggt infatti, nonostante abbia una storia costellata di contraddizioni e di atteggiamenti ambigui nei confronti del regime di Bourghiba prima e di Ben Ali dopo, rappresenta agli occhi dei tunisini, simbolicamente e razionalmente, l’unica forza sociale in grado di opporsi agli abusi dello Stato, e l’ultimo baluardo di difesa della democrazia, soprattutto ora che le speranze di un cambiamento reale, portate dalla Rivoluzione, si stanno affievolendo, principalmente a causa della dura repressione e dell’atteggiamento non curante nei confronti dei bisogni delle regioni marginalizzate che il governo sta portando avanti.
Il 6 dicembre sono stati indetti nelle regioni di Siliana, Gafsa, Sidi Bouzid e Kasserine quattro scioperi generali regionali, ma lo sciopero generale nazionale porta con sé una carica di emotività e di valore simbolico. Il primo venne indetto nel 1978 e si concluse con più di 400 morti, tanto che viene ricordato come “il giovedì nero”. Un secondo sciopero generale nazionale venne organizzato il 12 gennaio 2011 in pieno clima rivoluzionario, e ha contribuito alla caduta del regime di Ben Ali, avvenuta il 14 dello stesso mese.
Questa forte carica simbolica contribuisce ad innalzare la tensione sociale in vista dello sciopero del 13, che verrà preceduto da una manifestazione di artisti solidali con il sindacato prevista per la sera di oggi, e da un corteo del movimento Occupy Tunisia, domani nel centro di Tunisi.

lunedì 10 dicembre 2012

Quatar - Doha: porta di entrata per un futuro infernale.

di Francesco Martone e Alberto Zoratti

Alla fine ce l'hanno fatta. Dopo una serie di colpi di scena è stato approvato a colpi d'ariete della presidenza qatariota e sul filo del rasoio (nonostante la resistenza in zona Cesarini della Russia) il “Doha Climate Gateway”. Una porta di entrata per il futuro con l'estensione del protocollo di Kyoto, il riconoscimento del risarcimento per danni causati dai cambiamenti climatici e l'impegno dei paesi industrializzati di stanziare per lo meno una somma pari alla media di quanto sborsato in aiuti climatici negli ultimi 3 anni. Una proposta di minima visto che troppi erano i gap da colmare. E' uno dei tanti paradossi di questa Conferenza delle Parti sui mutamenti climatici che è conclusa sul filo del precipizio a Doha, città simbolo di opulenza, immenso cantiere a cielo aperto, sede un incontro che all'inizio si annunciava come un appuntamento di transizione. Così non è stato. Le ultime fasi del negoziato del livello “ministeriale” si sono protratte ben oltre i tempi previsti, tra mancanza di volontà politica di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, (Stati Uniti in particolare) e richieste insoddisfatte di un aumento dei fondi per sostenere i paesi in via di sviluppo o rapida industrializzazione verso un'economia a basso contenuto di carbonio, – la Cina nello specifico, ma non solo. Ed un ultimo colpo basso della Polonia con dietro le spalle Russia ed Ucraina intenzionate a proteggere il loro diritto di vendere alte quote di permessi di emissione fino al 2020, anche se ciò avrebbe portato al fallimento totale della Conferenza. Così nella “land of plenty” del Qatar, l' occasione per l'Emiro Hamad bin Khalifa al Thani di proporsi al mondo come paladino dell'ambiente rischiava di sfumare per una questione di quattrini, e per manifesta incapacità dei suoi diplomatici. Se non fosse bastata la condanna all'ergastolo per Mohammed al-Ajami, un poeta giudicato colpevole di "sovversione del sistema di governo" e "offesa all'emiro" per una sua poesia dedicata alla “Tunisia dei gelsomini”. Anche qui a Doha si riverberano gli effetti della “crisi” finanziaria in Europa, che a Durban aveva messo assieme paesi poveri ed insulari salvando il negoziato , e che poco dopo, vista l'incapacità di tener fede alle promesse di aiuti finanziari, ha visto indebolirsi il suo potere di trattativa. La morsa del Fiscal Compact, e delle politiche di austerità sostenute dalla BuBa e dalla Cancelliera Angela Merkel stanno così avendo un effetto devastante anche sul profilo internazionale dell'Unione già compromesso dalla posizione oltranzista di Varsavia.
A Doha c'era da concludere il Piano di Azione di Bali su temi quali adattamento, mitigazione, foreste, trasferimenti di tecnologie, finanziamenti, strumenti di attuazione, il prossimo regime di riduzione delle emissioni globali. Si è faticato fino all'ultimo secondo per poter passare la palla al gruppo di lavoro creato a Durban che dovrà trattare un accordo globale vincolante per tutti entro il 2015, per entrare in vigore nel 2020. Fumo negli occhi di Todd Stern, negoziatore di Washington. Un passo in avanti però c'è stato, si riconosce per la prima volta il diritto dei paesi insulari al risarcimento per le “perdite e danni”” per i danni subiti a causa dei cambiamenti climatici. Fino all'ultimo è rimasta aperta la questione finanziaria, ovvero come reperire quel che resta dei 30 miliardi di dollari promessi a Copenhagen per il 2010-2012, e arrivare ai 100 miliardi l'anno entro il 2020.
A poco è servito che l'Inghilterra annunciasse lo stanziamento di 2,2 miliardi di dollari, seguito a ruota da altri paesi europei, (Germania, Francia, Olanda, Svezia, Svizzera e UE) per un totale di 6,85 miliardi di dollari per i prossimi due anni, un' aumento rispetto al biennio 2011-2012. Inoltre i paesi donatori chiedevano di verificare come quei soldi verranno spesi nei paesi in via di sviluppo, questi ultimi chiedono invece che si faccia un verifica degli impegni di spesa dei primi. L'onda lunga di questo gioco al rimpiattino si è fatta sentire anche nel negoziato sulle foreste, che ha prodotto un risultato inferiore alle aspettative. Se ciò non bastasse. nonostante le decine di morti causate nelle Filippine dal tifone Bopha, i governi non sono riusciti ad accordarsi su come colmare quel differenziale di 6-15 gigaton di emissioni che marcano l’inadeguatezza degli attuali impegni di riduzione. O il cosiddetto “ambition deficit”, ossia il differenziale tra la percentuale attuale delle riduzioni di emissioni: 11-16% attuali rispetto a quelle necessarie entro il 2020, ovvero il 25-40% sui livelli di emissione del 1990. Temi che riemergeranno con virulenza nei prossimi anni.
La COP18 riesce nonostante tutto a rimettere faticosamente in carreggiata il Protocollo di Kyoto confermando il "Second commitment period" cioè il secondo periodo di impegni di taglio delle emissioni di gas climalteranti che i Paesi industrializzati avrebbero dovuto assumersi dopo il 2012. Un obiettivo di basso profilo, visti i molti tentativi di far deragliare l'unico Protocollo realmente vincolante assieme a quello di Montreal. Dal 1 gennaio 2013 inizierà Kyoto 2, ma vedrà li paesi parecipanti, quali Unione Europea, la Svizzera, l'Australia e la Norvegia rappresentano solo il 15% delle emissioni globali. La loro adesione a Kyoto, gli avrebbe permesso di consolidare il mercato del carbonio (come il sistema ETS europeo o quello australiano, che nei prossimi anni andranno a convergere) , uno dei meccanismi flessibili di Kyoto particolarmente voluto dai Paesi industrializzati, perchè permette una mitigazione a basso costo.Ed invece uno dietro l'altro i paesi aderenti hanno annunciato  inaspettatamente di voler rinunciare all'acquisto di crediti di emissione fino al 2020 quando terminerà Kyoto 2.   Il rimanente 85% delle emissioni, provenienti da Stati Uniti (con 17 tonnellate e passa procapite all'anno di CO2) e Cina (con poco più di 7 tonnellate procapite allo stesso livello dell'UE) verranno gestite all'interno del percorso negoziale nato a Durban un anno fa, verso un regime non vincolante ma di "pledge and review", impegni volontari da verificare collettivamente. Kyoto 2, sebbene rimanga in piedi legalmente, dovrà essere riempito di significato, di numeri e di percentuali.
La rigidità di Stati Uniti, che non hanno mai ratificato Kyoto, del Giappone o del Canada, che dal Protocollo è uscito un anno fa a causa degli interessi economici ingenti legati alle sabbie bituminose in Alberta ed al loro sfruttamento, è stato uno degli elementi di blocco di un negoziato che, secondo le regole mutualmente decise nel corso degli anni, sarebbe dovuto arrivare naturalmente ad adottare un regime vincolante. D'altra parte la Cina, che nasconde dietro al gruppo del G77 i suoi interessi di potenza mondiale ormai emersa, non accetta alcun vincolo multilaterale che metta in discussione il suo sviluppo impetuoso ancora fondato sullo sfruttamento del carbone e del nucleare. Kyoto è necessario, ma non è assolutamente sufficiente. Non lo era prima, tanto meno lo sarà oggi. Il picco di emissioni di C02, dice il Panel di scienziati dell'IPCC, dovrà essere raggiunto nel 2015 per poi decrescere. Questo poter sperare di far rimanere la concentrazione di C02 sotto i 450 ppm e l'aumento della temperatura media globale sotto i 2°C, che però può significare +4°C - +6°C in altre parti del mondo, basti pensare all'Africa subsahariana che rischia di perdere in pochi anni buona parte dei suoi raccolti agricoli (con buona pace della sovranità alimentare) e alla Groenlandia, che ha visto scomparire quasi del tutto la sua calotta glaciale durante l'ultima estate boreale. Cosa che, ironia della sorte renderebbe assai meno costoso lo sfruttamento delle proprie risorse petrolifere.
La prossima Conferenza delle Parti che si terrà a Varsavia lascia poche speranze, vista l'ostinazione con la quale la Polonia ha cercato di affossare il protocollo di Kyoto e con esso tutto il negoziato. In molti stanno già guardando alla COP20 che si terrà a Parigi, quando - si spera - l'Europa avrà un'altra guida ed altre ambizioni.
Pubblicato in Il manifesto 9 dicembre 2012
di Francesco Martone (SEL) e Alberto Zoratti (Fairwatch)

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!