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giovedì 30 giugno 2022

Kurdistan - "Svezia e Finlandia ci hanno traditi in cambio della Nato"

Intervista a Yilmaz Orkan (UIKI-ONLUS): “Il memorandum tra Turchia, Svezia e Finlandia è stato firmato sulla pelle di migliaia di attivisti, avvocati, giornalisti e cittadini curdi. Che verranno consegnati al loro massacratore, Erdogan”.


“Non abbiamo amici, solo le montagne”. Recita così un antico proverbio curdo, sintetizzando in poche parole una lunga storia fatta di delusioni, massacri e tradimenti. Come quello di Svezia e Finlandia, Paesi finora “amici” dei curdi che due giorni fa hanno firmato un memorandum trilaterale che – in cambio del via libera della Turchia al loro ingresso nella Nato – accetta incondizionatamente le richieste di Erdogan, non propriamente un leader democratico.

Tra le altre, l’abbandono del sostegno – in ogni sua forma – al popolo curdo e la fine dell’embargo sulle armi imposto nel 2019 da Stoccolma e Helsinki in risposta all’offensiva proprio contro i curdi in Siria del Nord. Tradotto: Svezia e Finlandia dovranno consegnare alla Turchia tutti i rifugiati politici curdi che Ankara richiederà e accettare senza battere ciglio i bombardamenti turchi nel Rojava, la regione autonoma de facto nel nord e nord-est della Siria protagonista da anni di un esperimento unico in Medio Oriente, quello del confederalismo democratico.

Sono bastate tre pagine e dieci punti per cancellare la solidarietà che da decenni i governi e i popoli svedese e finlandese avevano garantito ai curdi. Fanpage.it ne ha parlato con Yilmaz Orkan, responsabile di UIKI-ONLUS (Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia).

Cosa pensate dell’accordo tra Svezia, Finlandia e Turchia?

L’accordo che Finlandia e Svezia hanno firmato con la Turchia ha dell’incredibile: Ankara ha scritto un documento che Stoccolma e Helsinki si sono limitate a firmare senza fiatare né apportare modifiche. Peccato che quel memorandum sia stato firmato sulla pelle di migliaia di attivisti, avvocati, giornalisti e cittadini curdi.

Perché dite che quell’accordo è stato firmato sulla vostra pelle?

Perché Erdogan è un dittatore che pratica già il massacro dei curdi. Quegli accordi però sono estremamente problematici anche per le democrazie occidentali e per la stessa Nato: quando l’Alleanza negli anni ’50 venne costituita l’idea di fondo era quella di difendere le democrazie liberali dalla minaccia dell’Unione Sovietica. Nel frattempo i tempi sono cambiati, l’URSS non esiste più e con l’ultimo memorandum di due giorni fa la Nato si trasforma in uno strumento nelle mani della Turchia, cioè nel bastone che il tiranno Erdogan potrà utilizzare a piacimento contro i popoli. Attenzione, vi ricordo che anche il Presidente del Consiglio Draghi in passato ha parlato di quello turco come di un regime dittatoriale.

Credete che la Nato parteciperà alla guerra contro i curdi?

Erdogan vuole il massacro dei curdi ovunque essi si trovino, dalla Turchia al nord della Siria, dall’Iraq all’Armenia. Ovunque. Ricordo che nel 2013 tre militanti curde del PKK sono state assassinate nel centro da Parigi da uomini dei servizi segreti turchi. Le autorità francesi sanno chi sono i killer, eppure nessuno hanno mai indagato per quel triplice omicidio. Ma torniamo a noi. Lo scopo del leader turco è fare sì che la Nato condivida questa strategia, altrimenti non avrebbe posto a Finlandia e Svezia condizioni così vincolanti. Il memorandum firmato due giorni fa costituisce un precedente molto pericoloso. In futuro i Paesi della Nato potranno avvalersi della potenza militare dell’Alleanza per dichiarare guerra ad altri popoli che, come noi, lottano per la loro libertà.

Perché molti curdi si erano rifugiati in Svezia e Finlandia?

È una lunga storia. Da decenni i Paesi scandinavi e i loro avanzati sistemi democratici garantiscono protezione ai rifugiati politici di tutto il mondo. Questo è valso per le persone in fuga dalle guerre civili in America Latina, Vietnam e in particolare per noi curdi, che dagli anni ’70 abbiamo trovato in questi Paesi dei luoghi sicuri in cui vivere rispettandone le leggi e le tradizioni. Oggi in Svezia esiste una comunità curda di oltre 200mila persone, 50mila delle quali arrivate dal nord della Siria negli ultimi anni a causa della guerra. Siamo una delle comunità più numerose di quel Paese tanto che oggi esprimiamo anche dei membri in Parlamento. Non comprendiamo come mai i governi di Stoccolma e Helsinki abbiano deciso improvvisamente di bollare i curdi come “terroristi” e rispedire nelle mani di un dittatore, Erdogan, molti rifugiati politici, giornalisti, avvocati, attivisti: è un fatto estremamente preoccupante.

Nel memorandum firmato dalla Svezia e dalla Finlandia la Turchia chiede, in cambio dell’ingresso nella Nato, che questi due Paesi non accolgano rifugiati delle YPG e YPJ.

Sì, e le YPG e YPJ (Unità di Protezione Popolare e Unità di Protezione delle Donne, ndr) hanno combattuto la guerra all’Isis. Sono state loro, al prezzo di 12mila martiri, a sconfiggere lo Stato Islamico a Raqqa, Kobane e altre città della Siria. Ci meraviglia non solo che Svezia e dalla Finlandia abbiano deciso che quei combattenti sono terroristi, ma che anche altri membri della Nato non abbiano avuto niente da dire al riguardo. Italia, Stati Uniti, Germania, Francia e Inghilterra non avrebbero mai dovuto accettare l’imposizione da parte della Turchia di una condizione del genere. Ma se tutti sono rimasti in silenzio, vuol dire che sono tutti d’accordo con Erdogan.

Cosa sta accadendo in questi mesi in Turchia?

Il consenso di Erdogan si sta sgretolando perché la situazione politica ed economica è disastrosa: un anno fa un chilo di zucchero costava 7 lire, oggi ne servono 30. Il rischio che nei prossimi mesi esploda una bomba sociale è alto, e il Governo usa la guerra ai curdi e la retorica dell’emergenza come strumenti per giustificare le difficoltà che i cittadini vivono: Erdogan bombarda il Kurdistan meridionale, minaccia il Rojava e spedisce jihadisti e mercenari turchi in Libia. È perennemente in guerra, la Turchia è costantemente in stato di crisi, un vero inferno.

Credete che Erdogan intensificherà gli attacchi ai territori curdi?

Sì. Lo farà. Nell’ottobre del 2023 si celebrerà il centesimo anniversario della Repubblica di Turchia e quell’anno scadranno anche i vincoli imposti dal Trattato di Losanna, che determinò nel 1923 la fine di ogni pretesa turca su Cipro, Iraq e Siria per 100 anni. Ora che Siria e Iraq sono Paesi distrutti e incapaci di difendersi, credete che Erdogan non tenterà di prendere il controllo di pezzi di quei territori? Lo sta già facendo: per questo attacca il Kurdistan meridionale, ha 38 basi militari in Iraq e vuole espandersi nel Rojava, anch’esso controllato dai curdi.

Il Rojava è il territorio in cui state sviluppando il modello del confederalismo democratico. Di cosa si tratta?

Un nuovo paradigma sviluppato dal leader del PKK Abdullah Öcalan. Nel XX secolo le lotte per l’autodeterminazione dei popoli si sono fuse con quelle per l’ottenimento di uno stato nazione: dopo aver analizzato la storia degli ultimi 100 anni abbiamo però compreso che i valori legati al nazionalismo, e i massacri che ne sono derivati ovunque, nel XXI secolo sono inaccettabili. Per questo abbiamo lavorato a un nuovo progetto che chiamiamo confederalismo democratico: vogliamo convivere con gli altri popoli, con tutte le religioni e le culture ma non chiediamo uno stato nazione, non vogliamo frontiere né confini. Nel nostro modello i cittadini autogestiscono le città, i villaggi e i quartieri.

Sembra un’utopia…

Eppure non lo è. Stiamo già mettendo in pratica questo paradigma in Rojava, nel nord della Siria: in questo territorio i curdi convivono con assiri, arabi, ceceni, armeni, combattono contro il patriarcato e si ispirano ai principi della solidarietà, dell’ecologismo, dell’economia sostenibile e dell’uguaglianza di genere. Si tratta di un modello molto forte, di una novità soprattutto per gli altri regimi del Medio Oriente. Quello di Ergogan è uno di essi: massacrando i curdi, vuole distruggere anche l’idea che esista un altro modo di convivere. Ed è grave che la Nato lo supporti.

A cura di Davide Falcioni per Fanpage

domenica 2 luglio 2017

Marocco - Le proteste del Rif si allargano a tutto il paese



Sono in sciopero della fame i portavoce della protesta del Rif, incarcerati dal Governo nelle scorse settimane per le manifestazioni che si susseguono dallo scorso dicembre dopo la morte di Mohssine Fikri, pescivendolo ambulante di Al Hoceima, triturato in un camion della spazzatura mentre cercava di recuperare i 500 chili di pesce spada confiscati dalla polizia.
La mobilitazione continua ad allargarsi come se il movimento della zona del Rif desse voce ad un malcontento che non riguarda solo le zone periferiche.
Come accade ovunque ed in particolare nel contesto mediorientale e nordafricano, le vicende sociali hanno molte sfaccettature. Per questo approfondire quel che accade è importante per non avere uno sgurado superficiale. 




Il Marocco è un paese in cui la monarchia ancora non è stata messa in discussione e il giovane sovrano Mohamed VI è riuscito fino ora a passare indenne, usando il bastone e la carota, attraverso l’onda delle cosiddette primavere arabe.
Ma corruzione, accentramento di ricchezze e poteri, squilibri sociali, mancanza di giustizia permangono esprimendosi in quel senso di insofferenza che viene chiamato “hogra” e che racchiude tutta la distanza e la mancanza di fiducia soprattutto dei giovani nel sistema. Esprimere il proprio dissenso, scendere in piazza oggi diventa ancora più difficile alla luce della crisi, della guerra, della percezione di paura che si vive in tutto il mondo e con le proprie particolarità in tutta la zona che va dal Marocco all’Iran.

Le proteste partite dal Rif, zona periferica del Marocco, sono state l’occasione per riprovare a scendere in piazza. Tutto non è lineare e facilmente leggibile, tanto è vero che numerosi articoli raccontano di come gruppi islamici radicali si siano inseriti dentro le proteste. Tutto questo in uno scenario in cui nelle scorse elezioni il partito dell’islam politico, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, ha riottenuto la maggioranza trovando modo di convivere bellamente con la monarchia al di là della formale opposizione. Tanto è vero che oggi il paese è governato da una coalizione di sei partiti tra cui il Rassemblement national des indépendants, guidato da un uomo d’affari che i commentatori definiscono essere molto vicino al re.

Per approfondire quel che succede vi proponiamo alcuni articoli usciti negli ultimi mesi, nella convinzione che come sempre capire è importante anche per trovare le strade per sostenere chi realmente prova a cambiare le cose, e non chi lo fa strumentalmente per mantenere intatto il sistema, anche cambiandogli il vestito.


Il Rif

La protesta, partita all’indomani della morte del pescatore Mohssine Fikri, affonda le sue radici nella situazione del Rif: si tratta di una zona che ha sempre avuto dissensi col governo centrale, tanto è vero che il secolo scorso, durante la guerra coloniale con la Spagna, aveva proclamato una breve indipendenza sotto la guida berbera. È una zona dove più forti sono povertà ed emarginazione.
Il padre dell’attuale re Mohamed VI, Hassan II diceva che c’è un Marocco utile e un Marocco inutile. Ed è proprio a causa del suo passato secessionista che la regione del Rif non rientrava fra le zone territoriali che avevano il suo favore. Dopo i movimenti del 1984 lanciati dagli studenti, Hassan II aveva deciso di escludere la regione del paese dai piani di sviluppo.
Nelle montagne aride la popolazione vive soprattutto di coltivazione di cannabis. Dopo l’arrivo al potere, Mohamed VI aveva proclamato di voler avviare un piano di riconciliazione con gli abitanti di questa regione berbera, ma la realtà continua ad essere quella di una mancanza di risorse locali che fanno aumentare la frustrazione: il tasso di disoccupazione è del 21%, cioè il doppio di quello nazionale.


Cronaca

28 Ottobre 2016
Mohssine Fikri pescivendolo ambulante di Al Hoceima (città situata a Nord nella regione settentrionale del Rif), muore stritolato nel tritarifiuti del camion dell’immondizia mentre protestava contro la requisizione della sua merce confiscata ingiustamente dalla polizia. La tragica morte ripresa con un cellulare e postata sui social network, da il via ad una rivolta, le cui rivendicazioni affondano nella situazione di marginalità della regione, che si propaga viralmente nelle zone limitrofe, arrivando in pochi giorni ad attirare anche l’interesse della stampa internazionale.


10 Dicembre 2016
Durante la giornata internazionale per i diritti umani ad Al Hoceima si svolge una grande manifestazione che riempe le vie della città. Tra media locali, attivisti e manifestanti si calcola che ci fossero all’incirca 100 mila persone. Si protesta per chiedere autonomia, diritti e libertà reali.


Da dicembre ad aprile
Continuano presidi e iniziative in uno stato di mobilitazione continua. Il Governo risponde con lo stato d’emergenza e la militarizzazione della zona. La protesta trova appoggio in tutto il paese, diventando il simbolo della generale insoddisfazione. Nasser Zefzafi, un disoccupato della zona, viene descritto nei media come il portavoce della protesta ed in molte occasioni arringa la folla durante le iniziative, rilascia interviste non solo ai giornali nazionali. La sua immagine inizia a circolare anche all’estero.


7 Aprile 2017
Il tribunale di prima istanza di Al Hoceima condanna con pene tra i cinque e gli otto mesi sette persone coinvolte nella morte di Fikri, ovvero gli agenti intervenuti durante la morte del pescatore. E’ una sentenza che fa ulteriormente crescere la protesta: è come se lo stato si fosse assolto dalle colpe, alla base di quel che è successo. Gli organizzatori delle proteste reclamano soprattutto miglioramenti economici e sociali. Dopo la sentenza un attivista dichiara: “stiamo chiedendo da mesi la costruzione di un ospedale specializzato nella cura del cancro, la creazione di un’università e l’abolizione del decreto del 1958 con il quale si considera Al Hoceima una zona militarizzata”.


14 Maggio 2017
Sei partiti della maggioranza di governo, capeggiati dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo ( partito islamico al potere) pubblicano un comunicato nel quale accusano chi protesta di “promuovere idee distruttive che seminano discordie” e peggio ancora di essere “separatisti”. Tutto questo è parte di una generale campagna di diffamazione che cerca di screditare chi protesta e nasconderne le profonde ragioni.


18 Maggio 2017
Viene convocato uno sciopero generale e migliaia di persone scendono in piazza con lo slogan: “Siete una mafia, non un governo”. Sei mesi dopo l’inizio delle proteste, la tensione non si placa.




Fine maggio 2017
Di fronte al permanere della protesta. Il Governo cerca di mostrare un volto conciliante.Una delegazione di ministri ed esponenti di istituzioni pubbliche si recano al Rif annunciando progetti sociali, educativi e nuove infrastrutture ma nessuna concessione politica e culturale. Promettono l’apertura di una sede distaccata dell’università di Tangeri ad Al Hoicema, la riqualificazione delle scuole, l’assunzione di 500 professori, la ristrutturazione e l’acquisto di un centro oncologico e annunciano la scelta da parte dello Stato di investire 900 milioni di euro nella regione.

Mentre il Governo vuole apparire conciliante a rompere il clima di pseudo tregua ci pensa il Ministro degli Affari Islamici, Ahmed Taofiq, che impone per la preghiera del venerdì a tutti gli imam di rimproverare i giovani ribelli, accusandoli di fomentare la “fitna”, ossia lo scontro tra musulmani.
All’ordine del Ministro gli imam obbediscono.

A Hoceim Nasser Zefzafi interrompe l’imam durante la preghiera del venerdì nella principale moschea della cittadina, accusandolo di utilizzare la religione a fini politici. Dopo essere duramente intervenuto, accompagnato da molti giovani, ritorna a casa.
Contro di lui viene spiccato un mandato di arresto . I reati sono l’aver ostacolato la libertà di culto, impedito al imam di parlare e aver insultato la religione, perturbando la tranquillità e sacralità del culto.
Nasser scappa da casa per fuggire all’arresto e diffonde un video sui social network assicurando che sta bene e appellandosi ai giovani perchè continuino in modo pacifico le manifestazioni.
Di fronte alle provocatorie accuse contro il portavoce della protesta, la tensione sale e ci sono scontri con la polizia, durante i quali vengono arrestati una ventina di ragazzi.

Nasser Zefzafi viene arrestato il 29 maggio. L’accusa è di minaccia alla sicurezza nazionale per aver interrotto il sermone dell’imam. Nel momento dell’arresto molte persone cercano di difenderlo. “L’imam stava parlando contro il nostro movimento. Ci accusa di destabilizzare il paese, di causare divisione. E Nasser ha preso parola per dire che dovrebbe dedicarsi a parlare di religione e non di politica. Stavano cercando un pretesto per arrestarlo”, dicono i manifestanti.
Le manifestazioni dopo gli arresti si fanno più dure.“Nasser, ti difendiamo con la vita e con il sangue”, gridano i manifestanti. A prendere il posto di Nasser come portavoce e simbolo della protesta è Nawal Ben Aissa, una giovane donna. Durante le manifestazioni cresce il numero delle donne che partecipano.

3 Giugno
Nel fine settimana la procura di Al Hoceima ordina l’arresto di un’altra ventina di attivisti. L’accusa per tutti è di “attentare alla sicurezza interna dello Stato, incitare a commettere delitti e crimini, umiliare i funzionari pubblici durante lo svolgimento del loro lavoro e commettere ostilità contro i simboli del Regno nelle riunioni pubbliche”. Proteste contro la repressione e a sostegno degli attivisti del Rif si svolgono anche in altre città del paese. 




11 Giugno 2017
Più di 10 mila persone manifestano a Rabat. La protesta è convocata dal movimento islamico illegale ma tollerato “Giustizia e Spiritualità”, vi partecipano anche partiti di sinistra e forze islamiche interne alla coalizione di governo.
Come spesso accade in piazza si ritrovano tutti quelli che hanno motivi di risentimento e protesta contro il governo, al di là delle rispettive appartenenze. Cosa questa per certi versi naturale ma foriera di grandi contraddizioni visto che il vecchio slogan "chi è nemico del mio nemico è mio amico" non sempre porta a grandi risultati,. Per cui nella stessa piazza ci sono islamici radicali, sindacati di sinistra e organizzazioni civili. Ci sono anche esponenti del Movimento "20 febbraio", ovvero quello che ha dato vita in Marocco alle proteste del 2011 durante la primavera araba. Uno di loro afferma “Quello che succede nella regione del Rif è di una gravità eccezionale visto il decreto di militarizzazione della regione e il decreto di emergenza. Non siamo più nel momento delle promesse del re del 2011".


Da metà giugno ad oggi
Il 14 giugno arriva la condanna a 18 mesi di carcere per i primi 25 attivisti. Una condanna dura se comparata ai 5 o 8 mesi dati a chi a partecipato alla morte di Mohssine Fikri. Ne seguiranno altre. Gli avvocati che difendono i manifestanti dichiarano “ la maggior parte dei condannati è accusato di aver manifestato senza autorizzazione gli ultimi giorni di maggio, dopo l’ordine di arresto di Nasser."
In occasione della conferenza stampa davanti al Tribunale l’avvocato di Nasser denuncia che il suo assistito ha subito violenze fisiche e morali, come il fatto che al momento dell’arresto, in modo dispregiativo sia stato definito “figlio di spagnoli”.
La notte le manifestazioni a Al Hoceima diventano più dure e viene proclamato uno sciopero generale per il fine settimana.

Un gruppo di detenuti inizia lo sciopero della fame in segno di protesta. Tra loro oltre a Nasser anche Mohamed Jellou, scarcerato da poco, dopo cinque anni di carcere per aver partecipato alle proteste del 2011.
Mentre nel paese la tensione cresce si svolge la visita del neo presidente francese. A Macron le organizzazioni dei diritti umani francesi inviano un comunicato per chiedere che venga condannata la repressione attuata dal governo marocchino. Alla conclusione della visita ufficiale Macron dichiara di aver visto il re molto attento a quel che succede, Ovviamente nelle dichiarazioni ufficiali non c’è traccia dei temi collegati ai diritti umani.
Proteste sono previste per la fine di giugno ed è stato convocato un nuovo sciopero generale.


NASSER ZEFZAFI

Quasi otto mesi fa, quando iniziarono le proteste per la morte del pescivendolo triturato in un camion della spazzatura, nessuno in Marocco conosceva Nasser Zefzafi. Era semplicemente un disoccupato, dopo essere stato strozzato dai debiti del fallimento di una piccola attività di riparazione di computer e telefoni.
Presente fin da subito nelle proteste, ne diventa il portavoce. Viene intervistato soprattutto dalla stampa internazionale, i suoi discorsi vengono ascoltati in piazza. Viene definito il leader del movimento. Diventa ancora più famoso quando a fine maggio interrompe il sermone dell’imam per denunciare quel che sta accadendo e viene denunciato ed arrestato.
C'è chi lo definisce un semplice disoccupato salito alle cronache, chi ne parla come appartenente a gruppi islamici radicali, chi addirittura lo definisce un provocatore al soldo degli spagnoli, chi semplicemente ne parla come un pazzo o un esagitato.


Proviamo a vedere cosa dice lui stesso in una lunga intervista realizzata da Diagonal lo scorso 4 aprile.

L’intervista parte dall’episodio scatenante, la morte di Mohssine Fikri. Nasser afferma: “Quello che è successo a Mohssine non è la prima, né non sarà l’ultima volta che accadrà (…) Ripeto, Mohssine è la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che ha portato le persone a combattere contro la hogra (…) Dalle prime indagini emerse come un fatto senza molta importanza. Questo invita a pensare che ci sia qualcosa di più grande, che implica personaggi importanti (...) Noi siamo manifestanti e come tali chiediamo un’indagine corretta. La gente che scende in piazza esige verità e che le indagini siano pubbliche per vedere chi si è sporcato le mani.”
Riferendosi al movimento di cui è portavoce e alla situazione attuale dice: “Chiediamo servizi pubblici, lo sviluppo della nostra economia, la fine della corruzione, che se ne vadano soldati e polizia. Quello che chiediamo non è diverso da quello che si chiede nel resto dello Stato. In questa terra (Rif) non si ha nulla, nè sviluppo economico, politiche che lo incentivino, università e nemmeno ospedali specializzati nell trattamento del cancro causato dalle armi chimiche spagnole nella guerra del 1921. Chiediamo questo per il Rif perché è dove viviamo e non c’è nulla, manca tutto”.
L’intervista continua con un giudizio sul comportamento del governo, che a parole si mostra condiscendente: “lo fanno per cercare di dare un esempio positivo e di rispetto per i diritti umani. Non dimentichiamoci che le mobilitazioni che stanno avendo luogo ora sono seguite in tutto il mondo e per quello non possono fare nulla (... )".
L’intervista termina con propositi sul futuro: “..possono incarcerarci e farci qualsiasi cosa, a me come alle altre persone che scendono in strada. (...) Se moriamo, che sia per la nostra terra e i nostri diritti”.


Nawal Ben Aissa

Casalinga di 38 anni, moglie di un tassista, madre di quattro figli. Una donna comune, che dopo l’arresto di Nasser viene indicata dai media come la nuova portavoce del Movimento Popolare.
Venuta a conoscenza della tragedia del pescivendolo tramite Facebook e interessata dall’impatto sociale delle proteste, inizia a studiare la storia e le rivoluzioni che hanno avuto luogo ad Al Hoceima. Decisa ad ascoltare i problemi dei rifeños (popolazione del Rif), scende direttamente nelle strade. Fa la sua prima apparizione pubblica l’8 Marzo, al fianco di Nasser.


Riportiamo brevemente le sue dichiarazioni in un’intervista realizzata da El Mundo lo scorso 12 giugno.
Inizia raccontando che “al principio si trattava di un movimento tranquillo e familiare, portavo anche i miei bambini”.
Parlando della sua istruzione dice: "Non ho avuto la possibilità di poter scegliere se studiare o meno. Qui alle bambine è già tanto se si arriva a mandarle alla secondaria ...".
Sono chiari nella sua testa i motivi che spingono la protesta: " costruire un’università, e dei programmi di inserimento per i lavoratori”.

A proposito dell’atteggiamento del governo dice: "Quando abbiamo iniziato le proteste, il governo si è dimostrato a favore delle nostre domande e si è impegnato a prendere in considerazione le nostre richieste. Poco dopo, senza che sapessimo il perché, hanno iniziato a detenere le persone in modo indiscriminato anche se non avevano niente a che vedere con il movimento.”
La giovane donna è stata accusata di essere parte di un gruppo indipendentista finanziato dal Fronte Polisario e dall’Algeria. Lei risponde: "Non è vero. Siamo patrioti e amiamo il nostro re, Mohamed VI, abbiamo la speranza che venga qui e veda che le nostre proteste sono pacifiche e riguardano tutto il Marocco, non solo il Rif."
Uno degli aspetti che più la preoccupa è il drammatico stato della sanità nella regione del Rif, dove il numero di patologie oncologiche è elevato. Lee cause risalgono al 1921 quando l’esercito spagnolo ha usato nella regione armi chimiche. La Spagna non ha mai negato di averle utilizzate, ma non l’ha mai riconosciuto ufficialmente.
Ad Al Hoceima c’è un ospedale oncologico molto piccolo, insufficiente per far fronte al problema. Nawal lo conosce molto bene, ha intervistato i malati facendo dei video e divulgandoli sui social grazie ai quali molta gente ha fatto offerte anonime per aiutare i malati a pagare i trattamenti.
“Non chiediamo l’ospedale più grande del mondo, o con le migliori tecnologie, vogliamo solo una struttura sanitaria adeguata”.

Nel chiudere l’intervista Nawal denuncia il clima di controllo: “il livello di repressione e la mancanza di libertà di espressione sono estreme. La cosa peggiore è che stanno soffrendo anche i miei figli, non vogliono che esca di casa perché non sanno se ritornerò”. 

domenica 14 maggio 2017

Turchia - Così Erdogan punisce i giornalisti che denunciano la verità

Così Erdogan punisce i giornalisti che denunciano la verità in Turchia

KAZIM KIZIL È UN ATTIVISTA IN CARCERE DAL 17 APRILE 2017. E' STATO ARRESTATO MENTRE FILMAVA LE PROTESTE POST REFERENDUM. UNA SUA AMICA RACCONTA TUTTA LA STORIA.
 di Sara Tomasetta
Kazim Kizil è un attivista e giornalista indipendente turco. Si guadagna da vivere facendo il farmacista, ma da anni documenta e denuncia quanto accade in Turchia, dando visibilità alla popolazione e supportando i diritti fondamentali delle persone. Kazim ha documentato gli scioperi dei lavoratori, le azioni femministe e quelle del movimento Lgbtq, la rivolta di Gezi Park nel 2013, l'esplosione nella miniera di Soma del 2014 e le altre vicende che hanno segnato la storia recente della Turchia e del Kurdistan.
Kazim è stato arrestato dalla polizia turca a Smirne, mentre riprendeva le proteste popolari del 17 aprile 2017 sorte in seguito all’esito del referendum che ha sancito la vittoria del presidente Recep Tayyip Erdogan. Il sì alla riforma ha trasformato la Turchia da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale.
L’attivista è stato accusato di aver violato le leggi insultando il presidente, incitando l’odio popolare tramite un tweet : “Il nostro popolo, con questo risultato, si dirige verso le strade :))”
Halkımız bu seçim sonuçlarıyla bize sokağı işaret etmiştir... :)) 
“Il 21 aprile il tribunale di Smirne ha confermato l'arresto con l’accusa di oltraggio al presidente Erdogan senza fornire nessuna prova”, ha raccontato a TPI una stretta amica di Kazim che per ragioni di sicurezza ha chiesto di rimanere nell’anonimato e che verrà indicata con D.
D. è a sua volta un’attivista, è andata via dalla Turchia per ragioni di sicurezza e sostiene che rivelare la sua identità adesso non sarebbe una scelta saggia. La ragazza spiega che se dovesse far ritorno in Turchia molto probabilmente l’aspetterebbe il carcere.
“Chiunque è all’opposizione è in pericolo in Turchia. Lo scorso anno abbiamo battuto il record di giornalisti detenuti. Io non sono conosciuta come Kazim e sono un obiettivo ancora più facile”, riponde D. alla mia richiesta di usare il suo vero nome. 
Perché Kazim è in prigione?
La vera ragione del suo arresto è stata confessata dal procuratore e dal giudice. Le autorità temono che persone come Kazim possano incitare alla rivolta come avvenuto a Gezi.
Kazim si definisce un giornalista indipendente e a causa di quel tweet ora è in carcere. Lui è solo uno delle migliaia di persone rinchiuse per presunti insulti al presidente Erdogan sui social media.
Pensi fosse già sotto osservazione?

lunedì 17 aprile 2017

Turchia - Erdogan “vince” il referendum, ma ha metà Turchia contro

Nessun plebiscito per il Sultano. Paese diviso. Il No avanti nelle grandi città e in Kurdistan. Denunce dei partiti di opposizione e proteste contro la sede della Commissione elettorale generale.
Poco più di un punto percentuale separa il risultato finale dell'Evet (sì) da quello dell'Hayir (no). 51,18% contro 48,82%. 24 milioni e 300mila voti contro 23 milioni e 200mila. Nel voto estero, invece, il sì raggiunge quasi il 60%, con poco più di 250mila voti di distacco. Per la prima volta da quando l'AKP è al potere, però, Erdogan perde l'appoggio delle grandi città. Ad Istanbul, Ankara e Izmir vince il No. E la stessa cosa accade in Kurdistan e sulla costa.
Il voto referendario mostra un paese spaccato, in cui il consenso del Sultano continua ad erodersi. Nonostante le operazioni militari, le minacce, gli arresti, il controllo quasi totale dei mezzi di informazione, i brogli, la vittoria nel voto sulla riforma più importante per i progetti autoritari di Erdogan è stata risicatissima.
La riforma accentra ulteriormente enormi quote di potere nelle mani del presidente. Questo sarà eletto direttamente dal popolo e acquisirà tutti i poteri esecutivi, dal momento che la figura del Primo Ministro viene eliminata. Potrà nominare e far dimettere gli esponenti del governo e sciogliere il Parlamento, nonché sospendere o limitare diritti civili e libertà fondamentali durante lo stato d'emergenza. Anche buona parte del potere legislativo viene consegnato nelle mani del presidente, che potrà emanare decreti legge senza alcun voto parlamentare. E anche rispetto al potere giudiziario, il presidente giocherà il ruolo più importante, nominando il Consiglio superiore della magistratura e agendo, anche formalmente, in una quasi completa immunità.

venerdì 3 marzo 2017

Turchia - Ha vinto la paura

di Ilaria de Bonis
Turkey Purge è un collettivo di giovani giornalisti turchi «diventati la voce libera della gente comune», come loro stessi si definiscono. Il lavoro di questi attivisti è molto utile oggi, nella Turchia del post golpe: il loro sito web aiuta a visualizzare i numeri e i dettagli della ‘purga’ del presidente-sultano, che sta annientando la libertà del paese. Inoltre traduce (in inglese) notizie che parlano di violazioni e arbitri contro le persone. Turkey Purge tiene desta l’attenzione su tutte le violazioni dei diritti umani. 
Abbiamo rivolto ai giornalisti alcune domande per mail ed hanno risposto collettivamente, raccomandandosi di riferire soprattutto la loro “preoccupazione per il destino della gente comune”. Parlano di “una deriva autoritaria” che si sta allargando. Con la scusa del terrorismo Erdogan può far fuori chiunque: colpisce i funzionari, gli insegnanti, gli impiegati, i parenti dei giornalisti. Chi non è dichiaratamente col presidente, è contro di lui. Il risultato è che in Turchia domina la paura e la gente sta diventando “apolitica”..
Che ne è della gente comune in Turchia in questo momento storico?
Questa cosa ci turba molto. Nessuno sembra preoccuparsi più di tanto delle migliaia di persone che vengono “punite” quotidianamente con l’accusa di terrorismo o sostegno al terrorismo. Il rischio di finire nel calderone dei sospettati gioca un ruolo fondamentale nel creare una società sempre più “apolitica”. Nessuno mette più in discussione la narrativa ufficiale. Mentre il governo punisce tutto ciò che percepisce come nemico, la gente prende per buono il pretesto di Erdogan nel dire che la sicurezza nazionale è sotto attacco.
C’è una paralisi sociale diffusa. Perché?

venerdì 10 febbraio 2017

Turchia - In sette mesi espulsi 4.811 accademici

In Turchia, dopo il tentativo del colpo di stato del 15 luglio 2015 le università attraversano un periodo molto difficile. Pochi giorni dopo il tentativo di golpe, il 20 luglio, è stato dichiarato per la prima volta lo stato d’emergenza, che ha avuto una durata di tre mesi ed è stato poi rinnovato per tre volte consecutivamente. Il paese vive quindi ancora oggi in questa condizione straordinaria. La presenza di numerosi controlli, l’impossibilità di svolgere manifestazioni di protesta, l’annullamento di numerose manifestazioni culturali sono soltanto alcune conseguenze dello stato d’emergenza.
Attraverso i decreti legge il Presidente della Repubblica, il Primo Ministro e il Consiglio dei Ministri hanno trasformato il paese su più fronti adducendo “motivi di sicurezza”. Cambiamenti radicali nella gestione degli enti pubblici, interventi straordinari nella gestione dei fondi pensionistici, apertura di nuovi cantieri edili per i privati, oppure per le grandi opere pubbliche in terreni prima appartenenti alle forze armate ed espulsione di numerosi impiegati statali presso vari ministeri. Tra queste persone allontanate dal posto di lavoro e finite sotto indagine ci sono 4.811 accademici universitari.
Dal 20 luglio fino a oggi sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale cinque decreti legge che riguardano i lavoratori dell’informazione e sono state chiuse 15 università su 191. Secondo i dati diffusi dalla Rete dei Giornalisti Indipendenti (BiaNet) queste strutture davano lavoro a 2.805 persone ed erano frequentate da 64.533 studenti.
Oltre alle università chiuse definitivamente, perché accusate di appartenere alla rete della comunità di Gulen – accusata a sua volta di aver progettato e messo in atto il tentativo di colpo di stato del 15 luglio – in diverse atenei sono stati licenziati e indagati 4.811 accademici. Osservando i nomi si nota che  molti compaiono tra i firmatari dell’appello per la pace lanciato nel gennaio del 2016 da 1.128 accademici appartenenti a 89 università in Turchia e all’estero, con la richiesta allo Stato di porre fine al massacro e alla politica di espulsione contro la popolazione delle regioni del sud est della Turchia e di punirne i responsabili. Il conflitto tra le forze armate turche e la guerriglia del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) è ricominciato nel luglio del 2015 dopo due anni di tregua. I firmatari dell’appello hanno subito numerosi attacchi politici e mediatici da parte del Presidente della Repubblica, del Primo Ministro, di numerosi esponenti del governo e di vari giornali e canali televisivi allineati con le politiche del governo. Nel giro di poche settimane alcuni accademici sono stati sospesi e denunciati e alcuni hanno passato parecchie settimane in detenzione cautelare.

giovedì 8 dicembre 2016

Egitto - Arrestata attivista per i diritti delle donne

Egitto: arrestata nota attivista per i diritti delle donne
Azza Soliman
Azza Soliman, fondatrice del Centro di assistenza legale alle donne egiziane, è stata arrestata questa mattina al Cairo in quello che per Amnesty International è il segnale di una ancora più marcata repressione nei confronti degli attivisti per i diritti umani.
“L’arresto di Azza Soliman è l’ultimo raggelante esempio della sistematica persecuzione in atto ai danni dei difensori dei diritti umani. Riteniamo che sia stata arrestata a causa delle sue del tutto legittime attività in favore dei diritti umani e che debba essere rilasciata immediatamente e senza alcuna condizione. Le intimidazioni e le persecuzioni contro gli attivisti per i diritti umani devono cessare” – ha dichiarato Najia Bounaim, vicedirettrice per le campagne presso l’Ufficio regionale di Amnesty International di Tunisi.
Tre settimane fa, le autorità avevano congelato i conti bancari di Azza Soliman e della sua organizzazione, senza alcuna decisione giudiziaria, e il 19 novembre le avevano impedito di recarsi in Giordania per prendere parte a un seminario di formazione sui diritti delle donne nell’Islam.
Il mandato d’arresto di Azza Soliman è stato firmato da uno dei giudici incaricati delle indagini sulle organizzazioni non governative (Ong) egiziane, conosciuto come il caso 173/2011. Il giudice deciderà se ordinare il suo arresto o il rilascio su cauzione.
“Azza Soliman, insieme ad altri difensori dei diritti umani, è già sottoposta a un divieto di espatrio e al blocco dei conti bancari. Il suo arresto segna un’escalation nell’uso di tutta una serie di tattiche repressive che hanno lo scopo di intimidire e ridurre al silenzio lei e altre voci critiche” – ha commentato Bounaim.
“Il rischio è che al suo arresto seguano analoghi provvedimenti nei confronti di altri difensori dei diritti umani coinvolti in quell’inchiesta” – ha aggiunto Bounaim.
Nel giugno 2014, 43 operatori stranieri ed egiziani di Ong erano stati condannati a pene da uno a cinque anni. Erano state chiuse anche alcune Ong, tra cui Freedom House e il Centro internazionale per i giornalisti.
Lo scorso anno, la magistratura egiziana ha intensificato le pressioni sui gruppi per i diritti umani, attraverso divieti di espatrio e il congelamento dei patrimoni bancari, per reprimere la libertà di espressione, di associazione e di manifestazione, con l’obiettivo finale di smantellare il movimento per i diritti umani in Egitto e stroncare anche il più timido segno di dissenso.
Il presidente al-Sisi potrebbe presto firmare una nuova, durissima legge sulle associazioni che conferirebbe al governo e alle forze di sicurezza poteri straordinari sulle Ong.
Azza Soliman ha fatto parte di un gruppo di 17 persone arrestate per aver testimoniato sull’omicidio di Shaimaa al-Sabbagh, un’attivista uccisa al Cairo nel gennaio 2015 durante una manifestazione pacifica. Accusata di manifestazione non autorizzata e disturbo all’ordine pubblico, Azza Soliman era stata assolta a maggio e, dopo il ricorso della pubblica accusa, nuovamente a ottobre.

mercoledì 20 luglio 2016

Il colpo di Stato fallito in Turchia e il piano anti-curdo di Erdogan

Il 15 Luglio 2016 in Turchia è avvenuto un tentativo di colpo di Stato senza riuscita . Anche solo in questa fase iniziale, il processo post-golpe avrà importanti conseguenze. È importante capire che questo processo è iniziato il 7 Giugno del 2015, quando Erdogan ha perso le elezioni e condotto un’operazione anti-democratica sui risultati. È importante fare un’analisi approfondita del colpo di Stato per capirne i potenziali risvolti.
Prima di tutto è fondamentale specificare che questo colpo di Stato non è stato intrapreso dai Gulenisti. Per via del conflitto tra l’AKP e i Gulenisti, i simpatizzanti di Gulen potrebbero aver preso parte al tentativo di colpo di stato. Ma dicendo “I gulenisti hanno organizzato il colpo di stato”, si sta cercando di creare una linea per reprimere ancora di più i sostenitori di Gulen. Nell’etichettare il colpo di stato come gulenista si sta cercando di ottenere l’appoggio per una vendetta verso i cospiratori del golpe. In altre parole si sta cercando di prendere due piccioni con una fava.
È evidente che questo tentativo è stato supportato e sostenuto da una larga parte dell’esercito. Se lo avessero pianificato ed eseguito in modo professionale ci sarebbe stata la possibilità di realizzarlo con successo. A tal proposito non si può dire che l’attentato è stato condotto dai gulenisti o da una minoranza: non c’è una presenza gulenista abbastanza grande nell’esercito per portare a termine un colpo di stato.
Forse molti degli organizzatori del golpe, tra i quali molti che stanno conducendo la Guerra contro i curdi in Kurdistan, non sono stati coinvolti a livello pratico, ma si è capito che molti generali nella regione hanno supportato il golpe. Sono stati cauti perchè la loro partecipazione avrebbe intralciato i loro sforzi nella guerra contro i curdi. Ad ogni modo, molti dei generali coinvolti nella guerra contro i curdi sono oggi detenuti come sostenitori del golpe.
L’insistenza nella guerra ha rafforzato i golpisti
Quando l’AKP non poteva risolvere la questione curda ha virato negli anni passati verso una guerra di distruzione contro il Movimento di Liberazione curdo. Specialmente tra la fine del 2014 e le elezioni del 7 Giugno del 2015, il meccanismo del golpe si era già stabilito ed espresso nel tentativo di una coalizione fascista. Quando Erdogan ha svoltato in direzione della guerra l’esercito è diventato l’attore principale. Tayyip Erdogan e l’AKP erano dipendenti dall'esercito nella guerra contro il Movimento di Liberazione Curdo.

mercoledì 15 giugno 2016

Storie di donne e non solo tra religioni, islam e società in Egitto, Iran, Siria e Tunisia



Continua la nostra ricerca per offrire spunti di riflessione sul rapporto tra potere, religioni, islam e donne. Il nostro lavoro nasce dal desiderio di comprendere il presente fuori da schematismi, facili analisi/scorciatoie, luoghi comuni, approfondendo temi e situazioni che seppure appaiono lontano, ci riguardano direttamente.


Nel 
primo articolo abbiamo incentrato la nostra attenzione su testi che raccontavano storie di attivismo
, di scelta, di chi combatte sul piano personale e collettivo contro gli integralismo e l'autoritarismo, facce gemelle che cercano di strangolare vite e territori.
Questa volta vi proponiamo una selezione di libri che spaziano dalla Siria all'Egitto, alla Tunisia e alla riflessione sulle religioni monoteiste. 
Cosa lega questi testi? 

Per noi, la sempre più profonda convinzione che quello che sta succedendo in questo pezzo di mondo, difficile anche da definire in una sola parola, che va dal Marocco all’Iran, visto attraverso storie di donne e non solo, ci permette di squarciare il velo sulle declinazioni di un potere che intreccia autoritarismo ed islam politico. La perversa e pervasiva concezione che porta la religione da fatto privato a base della società nei suoi aspetti sociali ed anche istituzionali. Quello che ci spinge è la convinzione che la laicità profonda sia un valore fondamentale, che ha portato a molte delle conquiste, ancora da difendere ed allargare, che le donne hanno conquistato nel nostro pezzo di mondo. 
Come dicono le indigene zapatiste, dall’altro lato dell’Oceano nello stato del Chiapas in Messico, " quando una mujer avanza, no hay hombre que retroceda" (quando una donna avanza non c’è uomo che retroceda) o le donne curde, in Rojava "se non possiamo difendere e liberare noi stesse, non possiamo difendere o liberare altri. La nostra rivoluzione va oltre questa guerra."
Lo strangolante nesso che unisce patriarcato, sistema capitalista, religioni (al plurale) vuol essere alla base della nostra ricerca, partendo da testi che non si presentano come analisi compiute ma come racconti, squarci, riflessioni che come in un enorme puzzle ci possono aiutare a comprendere e a rafforzare la scelta di appoggiare e sostenere chi lotta per la propria libertà collettiva e personale, chi ha il coraggio di affrontare una realtà durissima per provare a cambiarla.

Siria.
Elogio dell’odio di Khalifa Khaled.
L’autore, da poco passato in Italia per un ciclo di conferenze, ha sempre condannato senza sconti la repressione del regime nel suo paese. Attraverso la storia dei protagonisti del suo racconto affronta le profonde radici della recente storia siriana. 
Damasco di Suad Amiry.
L’autrice, dopo i suoi imperdibili lavori sulla Palestina, affronta attraverso i ricordi familiari, l’intero secolo, passando tra gli infiniti legami dei paesi arabi per raccontarci squarci di Siria fatti di vite vissute.
Tunisia. 
Ouatann. Ombre sul mare di Filali Azza
Un racconto sul paese prima della rivoluzione del 2011 e che serve a capire cosa ancor oggi stanno combattendo le donne, i giovani attivisti, le reti sociali nella Tunisia profondamente in bilico tra una possibilità di cambiamento ed un mantenimento profondo dello status quo.
Egitto.
Cairo calling di Claudia Galal
Uno sguardo a mezzo tra Italia ed Egitto sulla scena underground prima, durante e dopo Piazza Tahir, che serve per capire qual’è la situazione nel paese dei faraoni, dove è stato ucciso Giulio Regeni.
Iran. 
Finché non saremo liberi. La mia lotta per i diritti umani di Ebadi Shirin
L’appassionato racconto della scrittrice, vincitrice del Premio Nobel, ci porta al cuore del regime iraniano, ora sdoganato nelle infinite capriole della politica internazionale e regionale del Medi oriente.
… e per fine Dio odia le donne di Giuliana Sgrena che offre spunti di riflessione sulle affinità e peculiarità dell’oppressione femminile ad opera delle tre religioni monoteiste.
Buona lettura.
Elogio dell’odio di Khalifa Khaled, edizione Bompiani, anno di pubblicazione 2011

La storia, che si dipana tra le mura della casa tradizionale nei vicoli del cuore di Aleppo, dove vive la famiglia allargata della protagonista, ci porta dalla Siria del passato, impossibile da far tornare, alla repressione del regime negli anni ottanta, fino alle sue drammatiche conseguenze. Un affresco, con tratti poetici, che, nella semplice complessità di ognuno dei personaggi, ci fa capire le radici della devastante situazione di guerra civile attuale.
Recensioni 
È un volume indispensabile ... tanto più pensando a quanto è accaduto e sta accadendo in questi mesi in Siria, con le repressioni del regime di Bashar Al Assad contro le manifestazioni di dissenso verso il regime di Damasco e migliaia di profughi siriani scappati in Turchia nelle ultime settimane.
Il libro racconta altre proteste e altre repressioni nel sangue, quelle di Hafez Al Assad contro i dissidenti – musulmani ma anche comunisti – nella Siria degli anni ’80, quando il padre dell’attuale presidente aveva inviato i militari ad Hama, terza città siriana, e fatto uccidere migliaia di contestatori. Lo splendido e complesso romanzo di Khalifa, non ingiustamente definito nella quarta di copertina una sorta di Cent’anni di solitudine del mondo arabo, parte dalle vicissitudini di una famiglia di Aleppo per raccontare la storia di un intero Paese.
La protagonista e voce narrante, una giovanissima ragazza ribelle alla cultura chiusa e tradizionalista della sua famiglia di venditori di tappeti antichi, incarna insieme i dubbi e le angosce di una giovane donna araba e lo spirito dei dissidenti del tempo, spesso donne, che per sfuggire alla morsa del regime si rifugiarono spesso in opposti estremismi come il fondamentalismo islamico. L’Aleppo di Khalifa è una città di spie e delatori, una città impensabilmente grigia di soldati e dissidenti, stretta nella morsa del regime e nell'odio delle opposte fazioni che si combattono quotidianamente in un crescendo di tensione.
Al centro dei vicoli deserti di quella città sconosciuta, la vecchia casa di famiglia della protagonista, cresciuta con le vecchie zie e l’anziano servitore cieco, tra vecchie storie, armadi chiusi, boccette di profumi sconosciuti e farfalle appese ai muri, incapace di tutto fuorché di un odio crescente verso l’altro. Odio che sembra diventare una vera religione e l’unica cosa a poter dare senso alla vita.
È l’odio ad accompagnare costantemente la giovane protagonista, portandola a rinchiudersi sempre più in se stessa, rifugiandosi nel fondamentalismo islamico quasi per sfuggire la solitudine, costringendosi dietro alla prigione del velo. E arrivando poi alla prigione vera, quella durissima del regime di Assad, dove viene rinchiusa per otto anni, interrogata, torturata con altre donne per le sue attività di dissidente. Ne uscirà giovane eppure ormai sfiorita, solo per rendersi conto, troppo tardi e ancora una volta, dell’inutilità dell’odio e della banalità del male.
Tratto da www.ilrecensore.com
Leggi anche la recensione di editoriaraba.wordpress.com.
Khaled Khalifa
Nato ad Aleppo nel 1964, ha frequentato la facoltà di legge e, dopo la laurea, si è dedicato alla letteratura, lavorando come sceneggiatore per il cinema e la televisione, per poi fondare la rivista culturale “Aleph”, in seguito censurata dal governo siriano. “Elogio dell’odio”, censurato dal governo siriano è nominato nel 2008 per il Premio internazionale del Romanzo Arabo.
Khaled, a cui nel 2012 è stata spezzata la mano dal regime, oggi continua a vivere in Siria. 
Nel 2012 invia una lunga lettera agli scrittori del mondo per denunciare la situazione complice a livello internazionale.
Nelle interviste non smette di ricordare la solitudine in cui sono state lasciate le persone che lottano veramente per un cambiamento radicale nel paese e i giochi geopolitici che si combattono sulla Siria.

Recentemente è stato in Italia, come ci racconta Osservatorio Iraq. Dal tour vi proponiamo l’incontro svoltosi a Milano



Damasco di Suad Amiry, edizioni Feltrinelli, anno di pubblicazione 2016

Oh Dio, famiglie! Nessuno avrebbe potuto darmi più sicurezza della mia famiglia. E, se è per questo, neanche più insicurezza e fragilità.
Dietro i racconti della famiglia Baroudi, delle donne della famiglia, si riflettono temi potenti che riguardano le vicende mediorientali ma anche argomenti di forte attualità nelle nostre società, come la domanda se la madre di un figlio è chi lo partorisce o chi lo alleva.
Ancora una volta. Come nei suoi precedenti lavori Suad Amiry ci sorprende per la profondità che si accompagna all’ironia, o meglio alla sottile auto-ironia, necessaria al mondo arabo ma ovunque per guardare ai propri limiti.
Recensioni 
Damasco suona magica e favolosa, e continua a suonare così mentre si riempie di violenza e di fantasmi. Nessuno meglio di Suad Amiry poteva raccontare il fulgore del passato per aprire una porta sul presente.
Il racconto comincia nel 1926, nel palazzo di Jiddo e Teta – marmi colorati, soffitti a cassettoni, fontane che bisbigliano nell'ombra –, comincia quando, dopo trent'anni di matrimonio, Teta torna per la prima volta ad Arrabeh, il villaggio da cui era partita poco più che bambina per andare in sposa al ricco e nobile mercante damasceno Jiddo.
Il viaggio di Teta – intrapreso nella speranza di poter dare l’ultimo saluto alla madre – imprime una svolta inattesa al suo matrimonio: il sensuale Jiddo la tradisce. Il perfetto equilibrio della casa sembra spezzarsi, ma poi la vita della famiglia riprende: la dolcezza delle consuetudini smussa le asperità, i rituali attenuano e riassorbono i contrasti, gli equilibri si riassestano. Suad Amiry conduce il lettore nei cortili e nelle stanze della famiglia Baroudi, con i fastosi pranzi del venerdì, le rivalità tra i figli maschi pigri e viziati, il vincolo indissolubile tra le figlie femmine. 
Passano gli anni, ed è ancora una volta l’arrivo di un bambino a sparigliare le carte, a far luce nelle pieghe più nascoste dell’intimità domestica: vengono così a galla segreti inimmaginabili, come quello che lega la tenera Karimeh alla sorella maggiore Laila, che con piglio inflessibile ha assunto il ruolo di capofamiglia. 
Ma chi è la vera madre di un bambino? La donna che lo ha partorito o quella che lo ha accudito un giorno dopo l’altro? E fino a che punto è lecito tacere per proteggere quello che si ama di più?
Una saga appassionante e poetica sospesa tra realtà e finzione, una rievocazione innamorata e nostalgica di un mondo raffinatissimo spazzato via dal fanatismo e dalla crudeltà, ma soprattutto una riflessione sul senso della maternità e sul silenzio come estremo gesto d’amore. Una storia e un affresco che dall’Impero ottomano arrivano al presente ulcerato del Medio Oriente. I personaggi sono memorabili, la scrittura leggera, le emozioni grandi.
Tratto da Feltrinelli
Ascolta la recensione in Fahrenheit
Suad Amiry 
Architetta palestinese, nata nel 1951, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah. 
Cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, ha studiato architettura tra Beirut, l’Università del Michigan ed Edimburgo. 
Dall’inizio degli anni ottanta vive e lavora a Ramallah. Ha scritto e curato numerosi volumi sui differenti aspetti dell’architettura palestinese. 
In Italia sono stati pubblicati i suoi romanzi Sharon e mia suocera (2003) , 
Se questa è vita (2005), 
Niente sesso in città (2007), Murad Murad (2009) e Golda ha dormito qui (2013).


Ouatann. Ombre sul mare di Filali Azza, edizioni Fazi Edizioni. anno di pubblicazione 2015. 

Ci sono tutti i prodromi della rivoluzione del 2011 e tutti i problemi della Tunisia di oggi nel romanzo della scrittrice tunisina. Nella villa sul mare nelle vicinanze di Biserta l’intreccio, a momenti noir, tra i vari personaggi parla di corruzione, di malavita, di traffici di migranti ma anche di un malessere che appartiene ad un mondo in bilico tra tradizioni, strangolanti ma rassicuranti, e il desiderio di cambiamento. I vari protagonisti vivono in bilico, come anche oggi vive l’intera Tunisia. 

Recensioni 
«Una delle penne più talentuose del Maghreb. Azza Filali, donna di lettere e di scienza, al tempo stesso impegnata e libera dal peso delle ideologie, si afferma come una delle voci più forti e sensibili della Tunisia odierna» - Le Monde 
Non esiste, nella lingua italiana, un termine che possa rendere la parola ouatann, restituircene il carico di significato. Perché ouatann, per le popolazioni che abitano la terra tra il Mediterraneo e il Sahara, non è solo la patria, ma è un’intera tradizione condivisa, è una lingua, un sistema di valori, di abitudini e di gesti, un certo modo di intendere la vita. 
Tunisia, 2008. Malavita e politica hanno suggellato il loro patto, il malaffare regna incontrastato. Un villaggio vicino a Biserta. La felicità danza, inafferrabile, al confine tra cielo e mare. In una villa isolata sulla spiaggia si incrociano i percorsi di cinque sconosciuti: Rached, giocatore incallito e funzionario frustrato; Naceur, ingegnere ex galeotto che da un giorno all'altro ha visto la propria vita crollare; Michkat, inquieta avvocatessa affezionata al passato; Faiza, giovane sfuggente e focosa; Mansour, uomo violento dedito a una serie di traffici illeciti. Tutti uniti dallo stesso desiderio: quello di un futuro che si fa attendere, in un paese in cui la miseria di alcuni, il lusso sfrontato di altri e la paralisi dei valori comunitari hanno privato le persone di una dimensione essenziale: il senso di appartenenza alla propria patria. Ma per chi ci vive, in questa patria, anzi in questa ouatann, l’unico destino possibile è partire? Che ne sarà allora della memoria collettiva di un popolo?
http://www.ibs.it/code/9788876256134/filali-azza/ouatann-ombre-sul.html
Leggi anche le recenzioni in www.artapartofculture.net e La Feltrinelli.


Azza Filali
Nata 1952. Nel 2009 ha conseguito un master in Filosofia all'Università Paris 1. E’ medico di professione ma scrittrice per vocazione. Autrice di due saggi, una raccolta di racconti e sei romanzi e vincitrice di diversi premi, tra cui il premio letterario Comar d’Or per la narrativa tunisina di lingua francese, Ouatann. Ombre sul mare è il suo primo romanzo tradotto in italiano.
Vai alle interviste 
Il piccolo - Alla mia Tunisia hanno rubato i sogni
La repubblica - Ecco l’orgoglio e il pregiudizio della Tunisia


Finché non saremo liberi. Iran. La mia lotta per i diritti umani di Ebadi Shirin edizioni Bompiani, anno di pubblicazione 2016
L’Iran è tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi mesi, dopo la scelta di riabilitazione internazionale. Una dinamica che si inserisce nei piani sempre più in continua ridefinizione delle alleanze dell’area a livello locale ed internazionale. 
Un Iran, fortemente motivato a continuare il braccio di ferro con Arabia Saudita e Turchia per il predominio nell’area, che si gioca a colpi di rivalità che vengono dipinte come religiose, tra sciti e sunniti e che giocano le loro mortali mosse attorno alla Siria, divenuto teatro di devastazione generale e all’Iraq. 
Il libro di Ebadi non racconta solo la storia di una donna che ha vinto il Premio Nobel ma l’accanimento perverso del regime contro gli oppositori. Ed immaginiamo se quello raccontato è il trattamento riservato ad un personaggio famoso, quale può essere quello inflitto ai tanti sconosciuti, nonostante un potere che si presenta come moderato, ma che continua a tenere in una stretta strangolante un intero paese, fatto soprattutto di giovani?
Recensioni 
«Mio marito resta a Teheran, era stato arrestato ma ora, per fortuna, non è più in carcere. In un primo periodo gli avevano confiscato il passaporto. Ora potrebbe anche venire a trovarmi, all’estero, ma ogni volta è obbligato a lasciare una cauzione consistente. È consapevole che la situazione in Iran non è idilliaca ma l’Iran è il suo paese e preferisce vivere lì. Non è il tipo da vivere in esilio». Così Shirin Ebadi, avvocato iraniana insignita del Nobel per la Pace nel 2003, parlava del marito Javad. Era uno dei primi giorni di gennaio 2014, mi trovano nel suo ufficio londinese, in un grattacielo nel quartiere Hammersmith. Un’intervista, in coda a tante altre, da pubblicare nel piccolo volume Il mio esilio uscito in digitale negli Zoom di Feltrinelli e poi in cartaceo per Jouvence.
Parlando del marito Javad, Shirin Ebadi cercava di celare la malinconia. Ma non solo, perché il suo nuovo libro di memorie Finché non saremo liberi, appena pubblicato da Bompiani, rivela una realtà diversa: finito in una trappola del regime iraniano, una sera a Teheran il marito aveva bevuto un bicchiere di troppo ed era stato sedotto da una conoscente, ci era finito a letto ed era stato filmato dai servizi segreti della Repubblica islamica. Subito arrestato, era stato condannato alla lapidazione per adulterio.
Per sfuggire alla pena capitale, aveva accettato di collaborare con il regime, rilasciando una testimonianza in video in cui accusava la moglie di essere complice di un Occidente deciso a rovesciare la Repubblica islamica. Un amore durato più di trent’anni si è così spezzato. Per il tradimento, più che per la confessione mandata in onda – insieme a tante altre – dalla televisione di stato. O forse perché, come dirà più tardi Javad, seduto su una panchina del parco di Boston dove finalmente può vedere il nipotino, «l’unica cosa che sei riuscita a fare è rendere infelice te e la tua famiglia».
Dopotutto, le fa notare il marito, nonostante le attività delle organizzazioni non governative in Iran le violazioni dei diritti umani continuano. Le autorità iraniane hanno arrestato il marito, la sorella, i collaboratori di Shirin Ebadi. Il prezzo della lotta per i diritti umani Shirin Ebadi l’ha pagato e continua a pagarlo: le due figlie Nargues e Negar vivono all’estero, al sicuro, come lei. Ma Shirin resta sola, perché nel tentativo di sfuggire alle continue persecuzioni di regime il marito Javad ha chiesto il divorzio. Non più giovani, vivono lontani. E conclude Shirin, non c’è nulla «di più malinconico che preparare una teiera da uno, con un solo cucchiaino di foglie di tè».
Tratto da Io Donna
Leggi altre recensioni in La Feltrinelli e Libreria Universitaria.

Shirin Ebadi 
Nasce nel 1947. Dopo la rivoluzione islamica del 1979, è costretta ad abbandonare il lavoro di giudice, come tutte le altre donne. Riesce a mala pena a poter continuare a frequentare i Tribunali come “esperta”. Tra mille difficoltà e intimidazioni di ogni tipo, per lei e per chi le sta vicino, famiglia e collaboratori, apre un proprio studio, con cui si occupa di casi scomodi, come quelli dei dissidenti. 
Nel 2003 le viene assegnato il Premio Nobel per la pace. 
Nel 2009 è costretta a restare a Londra, dove si trovava per una conferenza, perché contro di lei vengono inventate accuse di ogni genere ed in Iran la situazione si fa quanto mai pericolosa.
Dall'Europa continua a denunciare la sistematica violazione dei diritti civili ed umani, continuando ad avere speranza di un cambiamento reale nel paese.
Cairo Calling di Claudia Galal, edizioni AgenziaX, anno di pubblicazione 2016 
Dalla sparizione e l’omicidio di Giulio Regeni, la realtà quotidiana di violazione dei diritti umani nel paese guidato da Al Sisi, ha iniziato ad essere compresa da molti. Si tratta di una cappa che cerca di soffocare l’intera società egiziana. Una situazione che viene nascosta da un’omertà internazionale complice, dettata dagli interessi che si muovono intorno al possibile ruolo nell'area dell’Egitto. Il governo italiano non è da meno, impegnato a difendere i possibili guadagni del più grande giacimento di gas, scoperto dall’Eni a Zohr. 
L’Egitto vero, che oltre le disinllusioni seguite alla rivoluzione di Piazza Tahir, è anche quello che emerge dalle vite delle donne ed uomini intervistati da Claudia Galal. Tra musica, street art, graffiti, scopriamo l’underground del paese dei faraoni. Esperienze pulsanti che cercano la strada per esprimersi anche in una situazione quanto mai asfissiante. I viaggi di Claudia Galal, il suo sguardo tra Italia e Egitto riflettono le speranze, le contraddizioni, la ricerca generazionale che attraversa un’intera generazione tra le due sponde del Mediterraneo.


Murales egiziano
Nel gennaio 2011 Piazza Tahrir diventava l’ombelico del mondo, il cuore della Primavera Araba e della rivoluzione egiziana. Purtroppo non mi trovavo lì, dove i giovani del Cairo stavano facendo la storia, ma anche a distanza mi rendevo conto della portata epocale di quello che stava succedendo.
Ho iniziato a prendere appunti, a registrare dati, nomi, elementi, a prestare attenzione a volti, immagini, simboli. Non sapevo ancora che cosa ci avrei fatto, ma non volevo perdermi più di quello che mi stavo già perdendo, non essendo là.
Poi sappiamo tutti com’è andata – come sta andando – e negli anni quella massa di annotazioni è diventata un libro, Cairo calling, in uscita il 26 maggio 2016 per Agenzia X. Seguendo le mie passioni, mi sono concentrata soprattutto sull’esplosione e l’evoluzione delle controculture (rock, musica elettronica, rap, street art), che in questi ultimi cinque anni e mezzo sono state inevitabilmente legate alla situazione socio-politica.
Quelle che seguono sono le prime righe di Cairo calling, che comincia dal 25 gennaio 2011 e si chiude con la drammatica uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni, in un necessario e doloroso finale aperto.
«Primi giorni del 2011. Al sicuro, protetta nel guscio della mia metà italiana, seguo con trasporto e preoccupazione quello che succede in Egitto, dov’è nato e cresciuto mio padre e dove affonda una parte delle mie radici. È il 25 gennaio…
All’ora di cena rientro a casa con addosso un’ansia pesante. Durante il giorno ho seguito le notizie dall’Egitto dal computer dell’ufficio, ma fra le mille cose da fare non sono sicura di aver capito qualcosa. Mentre salgo le scale del mio condominio in zona Giambellino, dove gli unici non egiziani sono il mio fidanzato e la famiglia cinese del piano di sotto, si confondono e si sovrappongono voci di telegiornali in arabo e discussioni concitate. A tratti mi sembra tifo da stadio, come se i miei vicini volessero spingere qualcuno verso un’impresa impossibile.
Intanto ricevo qualche messaggio sul mio cellulare obsoleto: “Che casino al Cairo”, “I tuoi stanno bene?”, “Che cazzo state combinando?!”. Ma io non sono lì, purtroppo, e non ho ancora avuto tempo di mettere insieme i pezzi di questa giornata storica.
Entro in casa e, come in quella vecchia canzone, “questa stanza non ha più pareti”, perché distinguo perfettamente i discorsi animati dei ragazzi di fianco, giovani immigrati che tutte le notti si ammazzano di fatica al mercato ortofrutticolo.
Non capisco ogni frase, ma la parola chiave arriva forte e chiara. Rivoluzione!
Senza togliermi nemmeno il cappotto, accendo tv e computer, così seguo contemporaneamente la diretta del telegiornale e il flusso di notizie che emerge dalla rete, dai social network in particolare. Chiamo anche mio padre, abbastanza sconvolto e confuso quanto me, e mi assicura che la nostra famiglia sta bene. […] La rivolta era nell’aria. Nelle ultime settimane continuavano ad arrivare le immagini piene di rabbia, dolore e frustrazione delle rivolte tunisine, mentre qualche voce di protesta, ancora debole e isolata, si sollevava anche in Egitto.
Fino a oggi, 25 gennaio 2011, quando moltissime persone rispondono all’appello della pagina Facebook “We are all Khaled Said”, dedicata al giovane ucciso qualche mese prima dalla polizia di Alessandria in circostanze poco chiare, con l’intenzione di sabotare il National Police Day. Un’ondata di manifestanti si riversa per le strade del Cairo e di Giza, raccogliendosi nella centralissima piazza Tahrir, mentre altre proteste esplodono nelle città del paese, da Suez a Ismailiya, da Alessandria a Mansoura, da Tanta ad Aswan. [...]»
Oggi siamo tutti indignati e arrabbiati, giustamente, con l’Egitto. Ma non bisogna commettere l’errore di identificare un popolo con il regime che lo affligge. Le voci del dissenso sono tante e si esprimono in tanti modi diversi, certo non da oggi, ma da anni.
Ho cercato di raccoglierle, molte di queste voci, perché mi chiamavano forte e non potevo far finta di non sentirle. Il risultato è Cairo calling. L’underground in Egitto prima e dopo la rivoluzione (Agenzia X Edizioni). 
Tratto da Agenzia X
Claudia Galal 
Italoegiziana, nasce a Urbino e studia a Bologna. Oggi vive a Milano, dove lavora nel campo dell’editoria e della comunicazione. Si interessa soprattutto di musica e street art. Ha pubblicato il volume Street Art e ha partecipato alla realizzazione della guida Re/search Milano.
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Dio odia le donne di Giuliana Sgrena, edizioni Il saggiatore, anno di distribuzione 2016 
Giuliana Sgrena ha scritto un libro coraggioso, in un’epoca in cui la fascinazione verso alcuni leader religiosi riesce a velare i pesanti attacchi portati quotidianamente ai diritti delle donne. Dio odia le donne rafforza una certezza: quanto sia umano, e solo umano, questo odio.
Raffaele Carcano e Adele Orioli
Se in Rivoluzioni velate si analizza come le donne, protagoniste indiscusse della Primavera araba stanno rischiando di diventare le prime vittime della controffensiva islamista, dopo che i partiti di stampo religioso sono stati "legalizzati", il nuovo lavoro di Giuliana Sgrena apre la riflessione a 360 gradi sul legame tra le religioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islamismo, e l’oppressione femminile. Il testo con l’analisi comparata di comportamenti, divieti e punizioni sulle donne ci permette di fare un’operazione di pulizia mentale e ci mette di fronte alla necessità imprescindibile di opporci all’invasiva stretta delle religioni nel nostro qui come ovunque.
Recensioni
Si intitola Dio odia le donne (pp. 2014, euro 18) ed è il nuovo libro di Giuliana Sgrena pubblicato di recente da Il Saggiatore. Fin dall’introduzione si apprende che non si tratta di un pamphlet, né è un lavoro che desideri offrire una nuova esegesi delle fonti o una disquisizione teologica. La disposizione attraverso cui leggere questo volumetto, agile e al contempo solido, equipaggiato di dati ma godibile nella scrittura tagliente e svelta, si adegua allora a ciò che la stessa Sgrena dichiara di aver effettuato: una narrazione di carattere esperienziale, frutto di una ricerca personale che l’ha portata ad analizzare l’immaginario e le ricadute sociali che emergono nel confronto tra le tre religioni monoteiste e il sesso femminile.
La ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia dell’autrice. A essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni interne alle singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il patriarcato; ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e dei suoi simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e consumo testi, scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico scopo di controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso, il libro colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta per la copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e liscia nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero suora, intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della suora apre e chiude il volume, dapprima legata all’infanzia di Sgrena che si è misurata con delle scuole cattoliche e che, in considerazione del padre comunista, veniva costantemente avvisata delle preghiere per lei. Così alla fine, quando racconta che una suora incontrata per caso le rammenta che in molte e molti hanno pregato durante la sua prigionia. Ma lei no, certo grata per la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato neppure in quelle ore di dolore: «anche quando sentivo la morte vicina, ogni volta che i miei guardiani giravano la chiave nella toppa della porta e pensavo potesse essere arrivata la mia fine, quando avevo paura all’idea che mi potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a restituire un approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna che ha contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli attraversamenti storico-politici di oppressione senza per questo tacere i guadagni delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con quel rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei primi gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e al rovescio. Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella restituitaci da Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti contesti, di ulteriori e ben più terrestri storture nella sua appropriazione. Lo racconta la giornalista che ha intervistato alcune giovani musulmane e che hanno accusato il disagio di non poter vivere con agio la propria sessualità. Esistono in questa configurazione, ad altre latitudini, vere e proprie «fabbriche della verginità», che propongono per esempio l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc Abecassis, per 2000 dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai, che confeziona per 15 dollari un imene artificiale con accluse gocce rosse, simili al sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità richiama quello più vasto del controllo proprietario della sessualità femminile; i dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università di Cambridge dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo uno studio condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti ascoltati si sono dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi culturali duri a morire, come quello legato alla piaga ancora devastante delle mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade ancora in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna Adan Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a questo efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto il mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana Nawal El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia, drammaticamente, a quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori di coscienza che hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della 194. Se allora è in nome della fede che si sdoganano pratiche simili, sarà il caso di soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri nodi, ancora irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa rispondere con l’agire politico
Tratta da Il Manifesto
Leggi anche la recensione in www.uar.it
e da Il Saggiatore
Giuliana Sgrena
Nata nel 1948 è una giornalista e scrittrice. 
Nella sua carriera di cronista, Sgrena ha avuto modo di realizzare numerosi resoconti da zone di guerra, tra cui Algeria, Somalia ed Afghanistan. Si è occupata particolarmente della condizione della donna nell’Islam, 
E’ stata rapita nel 2005 in Iraq e dopo la sua liberazione, uno dei funzionari del SISMI a bordo dell’auto che la riportava nella capitale irachena, Nicola Calipari, rimane ucciso ad un posto di blocco.
I suoi libri sono: Kahina contro i califfi. Islamismo e democrazia in Algeria del 1997, Alla scuola dei taleban del 2002, Il fronte Iraq. Diario di una guerra permanente del 2004, Fuoco amico del 2005, Il prezzo del velo. La guerra dell’Islam contro le donne del 2008, Il ritorno. Dentro il nuovo Iraq, del 2010, Rivoluzioni violate. Primavera laica, voto islamista, Milano, del 2014.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!