martedì 1 marzo 2011

Libia No fly no party

Libiadi Gabriele Del Grande
19 / 3 / 2011
Ballano, corrono, cantano e sparano in aria. Sono i ragazzi della rivoluzione di Benghazi. Che questa volta festeggiano davvero. È da poco passata la mezzanotte del 17 marzo, e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha appena approvato la risoluzione sulla no fly zone. In strada si sono riversate migliaia di automobili. I clacson suonano all'impazzata, ma a malapena si sentono, coperti dalle continue raffiche di kalashnikov e dai botti dell'artiglieria. Davanti al tribunale è una ressa. I ragazzi cantano “Irfaa raskum anta libi”, alza la testa sei un libico. La gioventù ha ritrovato l'orgoglio e ha scoperto col sangue di essere una comunità, con i suoi sogni di libertà e con il suo gusto per la sfida. Anche estrema. Come quella lanciata a rischio della propria vita ai miliziani di Gheddafi, che continuano indisturbati a colpire i civili. In piazza ci sono migliaia di persone pigiate una contro l'altra. La folla si apre soltanto per lasciare passare la sedia a rotelle di Ali. Ha il volto di un ragazzo adolescente, ma lo sguardo triste nonostante il clima di festa. Davanti a lui i ragazzi della piazza fanno la fila per baciarlo sulla fronte e stringergli la mano. “Coraggio!” gli dicono. Da quando la tv Al Arabiya ha diffuso la sua intervista, Ali è diventato il simbolo vivente delle vittime dell'oppressione di Gheddafi. In questi giorni gli ho chiesto tre volte di raccontarmi la sua storia. Ma ha sempre rifiutato. Dice che gli fa male parlarne, che è un incubo di cui non riesce a liberarsi. Si sveglia ogni mattina che gli manca l'aria, come in quella cella sotto i cadaveri sporchi di sangue. La sua storia corre sulla bocca di tutti. È l'unico superstite del massacro della caserma centrale di Benghazi. Venticinque ragazzi torturati a morte dalle milizie di Gheddafi, il 17 febbraio, dopo la manifestazione contro il regime. Alla fine del massacro, quella notte li scaricarono in mare lungo la costa, pensando che anche lui fosse morto come gli altri. Invece era vivo, è sopravvissuto e ha trovato il coraggio di raccontare. E di dire che quel giorno l'hanno picchiato, frustato e torturato, con continue scariche elettriche alla schiena e sui genitali, così – dicevano – non avrebbe messo al mondo altri bastardi. Scariche che l'hanno completamente paralizzato dalla schiena in giù.


La manifestazione va avanti fino all'alba sotto una leggera pioggia che sembra allentare le tensioni di questi ultimi giorni, con il fronte della guerra sempre più vicino alla città e con i due bombardamenti all'aeroporto. Il giorno dopo, delle sparatorie della notte non rimane traccia, salvo un po' di bossoli sparsi per terra. I volontari hanno ripulito la piazza, le macchine armate sono ferme all'esterno e migliaia di persone formano un quadrato disposte su file ordinate. Guardano Mecca e alle spalle hanno il mare. È un rito antico quindici secoli. I tappetini a terra, i piedi scalzi e la fronte appoggiata a terra. Pregano dio in un silenzio che dà una carica mistica a quello che sta accadendo. In tutta la piazza non si vedono simboli di partiti o associazioni. Per il semplice fatto che in Libia da 42 anni partiti e associazioni sono vietati. Ci sono soltanto le vecchie bandiere tricolori dell'indipendenza. Sventolano in aria a centinaia, di tutte le dimensioni, cucite a mano nelle sartorie della città.

Posti come quello di Omar Bruim, un signore di 74 anni, di Misratah, che nelle ultime settimane ha fatto le ore piccole davanti alla vecchia e fedele macchina da cucire. Disegna a mano la mezza luna e la stella bianca, poi ritaglia la stoffa, la cuce e vende il tutto a cinque dinari nella sua bottega. A me però la bandiera la regala. Perché non lo fa per i soldi. Come buona parte dei libici, anche lui con Gheddafi ha qualche conto in sospeso. Nello specifico sono i dieci anni in cui non ha potuto vedere il figlio, fuggito in Svizzera nel 1998 per scampare al mandato d'arresto che aveva portato in carcere altri dodici studenti universitari accusati di terrorismo per aver messo in piedi una associazione di beneficenza. Il signor Omar di bandiere riesce a cucirne una ventina al giorno, poi ci sono giorni in cui ne vende di meno e altri in cui ne vende di più. Per esempio oggi che soltanto Hussein Madani ne ha comprate cinque.

Hussein ha 38 anni, la barba lunga e la battuta pronta. Lui in piazza c'è dal primo giorno delle proteste. Anzi c'è dagli anni Novanta. Da quel giugno del 1995 quando lo vennero a prendere a casa le forze di sicurezza di Gheddafi, insieme al fratello Hasan. Li portarono al carcere speciale di Abu Salim, a Tripoli. Una prigione di massima sicurezza, dedicata in quegli anni ai prigionieri accusati di terrorismo islamico. Anche se col senno di poi, è chiaro che i terroristi erano altrove. E indossavano la divisa. La notte di quel 29 giugno del 1996 Husein era detenuto nella sezione a fianco. E certe cose non le dimenticherà mai. Le grida ad esempio. “Allahu akbar!” Dio è grande. Strillavano come dei pazzi quella notte. Suo fratello e gli altri. Mentre gli scaricavano addosso raffiche di mitra per sedare la rivolta. Le scariche andarono avanti per due ore. Ininterrottamente. Finché non si sentì più volare una mosca. Dicono che la mattina dopo uscirono dal carcere i camion frigorifero gocciolanti di sangue. Milleduecento morti, i cui corpi non sono mai stati ritrovati.

Molti erano di Benghazi. E oggi le loro foto sono appese sotto il tribunale della città insieme ai ritratti dei martiri della rivoluzione del 17 febbraio. Sui muri hanno scritto: “viva i martiri”. È la nuova iconografia della Libia che verrà. La Libia che ha distrutto le immagini del grande capo, e ha già iniziato a celebrare il mito popolare dei propri ragazzi morti per la libertà. Quanti siano nessuno lo sa. In tutto il paese potrebbero già essere un migliaio. Il resto dipende dagli scenari che verranno. Ad ogni modo il morale è alle stelle. E la sensazione di tutti è che sia soltanto questione di giorni.  I volontari dell'armata rivoluzionaria sono pronti a continuare a combattere. Perché nessuno si aspetta che Gheddafi ritiri le sue truppe. E nessuno allo stesso tempo vuole l'entrata nel paese delle truppe straniere e l'occupazione militare stile Iraq o Afghanistan. Vogliono fare da soli. Questo è chiaro ed è scritto sui muri e sui volantini distribuiti in piazza dal movimento. Chiedono soltanto una copertura aerea per evitare i massacri dei civili. Anche perché nonostante la no fly zone e l'annunciato cessate il fuoco del regime, dalle notizie che arrivano coi telefoni satellitari da Misratah e da Ijdabiya, sul fronte si continua a combattere. Altri mezzi per informarsi non ce ne sono, perché da due giorni i telefoni cellulari sono fuori uso, e internet continua a non funzionare da tre settimane.


Tratto da:  

Crisi libica - Italia a rischio? Dopo tante menzogne i fatti si impongono


Isola Lampedusa

Dal trattato di amicizia al silenzio sulle violazioni dei diritti umani, dall’emergenza sbarchi allo stravolgimento del sistema di accoglienza

di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo

I ritardi delle scelte dell’Unione Europea e dell’intera comunità internazionale sulla crisi libica stanno accordando a Gheddafi quei successi militari che qualche settimana fa apparivano impensabili. E malgrado la No Fly Zone, la carneficina di civili rischia di proseguire per molto tempo ancora. Si rischia anche una situazione di guerra nel Mediterraneo perchè in queste settimane Gheddafi ha avuto tutto il tempo per riorganizzarsi, e grazie alle divisioni presenti a livello europeo e alle Nazioni Unite, il dittatore libico o i suoi figli, potrebbero restare ancora a lungo sulla scena politica internazionale. Per comprendere quello che potrà ancora succedere e per stabilire come, e soprattutto con chi, con quali forze, procedere nei successivi passaggi dei rapporti tra la Libia e l’Italia occorre fare un piccolo sforzo di memoria, anche per non ripetere gli errori del passato. 1. L’Italia è stata il paese che si è battuta maggiormente a livello europeo a partire dal 2003 per ottenere la revoca dell’embargo imposto alla Libia dopo la strage di Lockerbie, commissionata da Gheddafi, come si apprende adesso dai documenti di Wikileaks. Sotto la presidenza di Prodi l’Unione Europea ha avviato una serie di contatti con le autorità libiche in vista della stipula di un accordo globale che avrebbe dovuto sancire l’avvicinamento definitivo all’area di libero scambio dell’Unione Europea e il ruolo della Libia nella esternalizzazione dei controlli di frontiera e nel blocco dei migranti diretti verso l’Europa. Anche se erano note a tutti le violazioni dei diritti umani e gli abusi praticati in quel paese ai danni dei migranti, come emergeva anche in un rapporto del 2005 a cura del SISDE sulla Libia, a firma del generale Mori.
Nello stesso periodo procedevano i rapporti per concludere una serie di intese bilaterali tra Italia e Libia per fermare i migranti, in gran parte potenziali richiedenti asilo, che da quel paese cercavano di raggiungere le coste italiane. Nel dicembre 2007, dopo una missione di D’Alema a Tripoli nella primavera di quello stesso anno, il ministro Amato ed il capo della polizia Manganelli firmavano i Protocolli operativi che avrebbero dovuto regolare la collaborazione tra le autorità di polizia italiane e quelle libiche nel blocco e nei successivi respingimenti dei migranti in fuga dalla Libia. Per oltre un anno, tuttavia, quei protocolli restavano inattuati perché nel frattempo si verificava l’ennesimo cambio di governo e Gheddafi rialzava la posta , esigendo in cambio del suo impegno contro le emigrazioni clandestine un “Trattato di amicizia” di carattere globale, che riconoscesse la responsabilità dell’Italia per l’occupazione coloniale della Libia e un congruo risarcimento che ammontava a diversi miliardi di dollari. Nel frattempo un giro vorticoso di affari e commesse, anche militari, legava sempre più l’Italia alla Libia.
Il 30 agosto 2008, proprio a Bengasi, Gheddafi e Berlusconi firmavano il “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia”, nel quale si prevedeva, tra l’altro, l’investimento in Libia di 5 miliardi di dollari provenienti dall’erario italiano attraverso la realizzazione di opere pubbliche, e la collaborazione della Libia con l’Italia nella “lotta all’immigrazione clandestina”. In questo accordo non si prevedeva alcun impegno da parte della Libia alla ratifica e al rispetto della Convenzione ONU sui rifugiati del 1951, né si riconosceva all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati la possibilità di monitorare ed accogliere le richieste di protezione da parte dei migranti provenienti in Libia da paesi colpiti da conflitti armati o crisi umanitarie.
Nel Trattato di amicizia inoltre, all’articolo 3, si prevedeva che “Le Parti si impegnano a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite”. Ed all’art. 4 si aggiungeva il principio di “non ingerenza negli affari interni”, con le previsioni che:
1. Le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato.
2. Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non userà, ne permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia.
Nel successivo articolo 5 lo stesso trattato affermava il principio della “soluzione pacifica delle controversie”, in quanto “in uno spirito conforme alle motivazioni che hanno portato alla stipula del presente Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, le Parti definiscono in modo pacifico le controversie che potrebbero insorgere tra di loro, favorendo l’adozione di soluzioni giuste ed eque, in modo da non pregiudicare la pace e la sicurezza regionale ed, internazionale”.
Non si comprende come oggi nessuno senta la necessità di ricordare questi impegni, e nel quadro della pur condivisibile risoluzione dell’ONU sulla cd. no-fly zone per impedire altri massacri di civili, l’atteggiamento interventista e bellicista del governo italiano, dopo i ritardi iniziali e le dichiarazioni a favore di Gheddafi, rischia di aggiungere danno a danno. Ed è singolare come sia stata proprio l’Italia il principale fornitore di armamenti in favore della Libia. Per questa ragione l’Italia farebbe bene a mantenersi neutrale durante l’auspicato intervento militare per impedire a Gheddafi di infierire ancora sulla popolazione civile.
Il 4 febbraio 2009, all’indomani della ratifica del Trattato di Amicizia Italia-Libia da parte del Parlamento italiano, ratifica adottata a larga maggioranza con il voto favorevole del maggior partito di opposizione, il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, si recava Tripoli per incontrare il ministro dell’Interno libico, Abdulfatah Yunes El Abdei, e sottoscrivere il Protocollo di attuazione dell’Accordo Italia-Libia che prevede, tra l’altro, il contrasto dell’immigrazione clandestina attraverso il pattugliamento congiunto delle coste dell’Italia e della Libia. Per tutto il 2009 l’Italia applicava la politica dei respingimenti collettivi in acque internazionali, e per il più clamoroso di questi interventi, risalente al 7 maggio 2009 e documentato da immagini inconfutabili trasmesse dalla RAI, veniva denunciata alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo . Il 22 giugno del 2011 la Grande Camera della Corte di Strasburgo si occuperà del caso. Il 16 febbraio 2010, a Gaeta, l’Italia consegnava alla Libia tre motovedette della Guardia di Finanza per il pattugliamento delle acque del Mediterraneo, che si aggiungevano alle altre 3 consegnate nel maggio 2009. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni, presente alla cerimonia di consegna, ribadiva che «il contrasto all’immigrazione illegale ed alla criminalità organizzata che gestisce il traffico di uomini è l’obiettivo primario per Italia e Libia», ricordando che i frutti della fase operativa della collaborazione tra i 2 Paesi avviata nella scorsa primavera hanno superato «ogni più rosea aspettativa»: 90% in meno di sbarchi sulle coste italiane, risultato che rende «impraticabile una rotta redditizia per i trafficanti di uomini». A partire da quella data, per tutto il 2010 i respingimenti anche in acque internazionali venivano effettuati direttamente dalle motovedette italo-libiche sulle quali erano imbarcati militari italiani della Guardia di Finanza. In un caso una di quelle motovedette apriva il fuoco su un motopesca di Mazara del Vallo impegnato a raccogliere le reti. Un caso sul quale dopo pochi giorni calava la cortina del silenzio, con la rassicurazione fornita da Gheddafi che avrebbe punito i responsabili di quel tentativo di omicidio.
Intanto il 12 novembre 2010 La Libia respingeva a Ginevra le raccomandazioni, formulate in ambito di esame Onu, di adottare una legislazione sull’asilo e di firmare un’intesa sulla presenza dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) nel Paese. Tripoli ha respinto tra l’altro anche la raccomandazione di abolire la pena di morte e di garantire l’uguaglianza delle donne davanti alla legge e nei fatti. Le raccomandazioni su asilo e Unhcr erano state formulate all’Onu da Paesi quali gli Stati Uniti ed il Canada nell’ambito dell’Esame periodico universale della situazione dei diritti umani in Libia, martedì scorso a Ginevra. Tripoli ha anche rifiutato la raccomandazione di abolire la pena di morte, ma ha al tempo stesso rinviato la propria risposta alla richiesta di adottare una moratoria sulle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena capitale. L’8 giugno 2010 la Libia aveva annunciato la chiusura dell’ufficio dell’Unhcr a Tripoli, successivamente la presenza dell’ Unhcr è stata accettata ma solo per occuparsi dei casi pregressi.
Dopo quella data le trattative tra l’Unione Europea e la Libia subivano un brusco rallentamento, ma neppure questa circostanza induceva il governo italiano a rivedere i suoi rapporti di collaborazione con Gheddafi, malgrado fossero universalmente note le gravi violazioni dei diritti umani delle quali il regime era responsabile nei confronti dei migranti in transito in quel paese, soprattutto se di fede cristiana, come gli eritrei, e nei confronti degli oppositori politici e dei giornalisti. E ancora oggi, malgrado il ritiro del nostro ambasciatore da Tripoli il Trattato di amicizia tra Italia e Libia è solo sospeso, e sembra che si voglia ripristinarlo non appena in quel paese si affermino nuove autorità statali, per fermare e respingere ancora una volta i “clandestini” in fuga da quel paese. Una fuga che, con la gigantesca repressione consentita a Gheddafi in questi giorni, si potrebbe trasformare, questa volta si, in un vero e proprio esodo di massa di cittadini libici che cercano di salvarsi dalle rappresaglie e dai rastrellamenti casa per casa.
2. Dopo lo scoppio delle insurrezioni popolari nei paesi del Nordafrica l’Italia ha mantenuto una posizione sostanzialmente attendista annunciando interventi umanitari ai confini tra Libia e Tunisia, interventi che nessuno ha visto concretizzarsi in quel campo di accoglienza per diecimila persone che era stato annunciato.
Nel frattempo le scelte del governo italiano, tra allarmi di “invasioni bibliche” e tentativi di nascondere l’inconsistenza del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, hanno reso insostenibile la situazione a Lampedusa, e stanno dimostrando come, di fronte ad una emergenza umanitaria, ancora una volta il governo Berlusconi sia capace soltanto di inviare reparti militari in missione di ordine pubblico e trattare la materia dei cd. sbarchi, in realtà salvataggi in alto mare, con i consunti strumenti della “lotta all’immigrazione clandestina”. Insomma una accoglienza dietro le sbarre o sotto la sorveglianza di pattuglioni di polizia in assetto antisommossa. I ritardi dell’Italia e dell’Unione Europea nel sostenere i processi democratici nelle regioni del Nord-africa e adesso la posizione interventista assunta dall’Italia, sia pure all’interno di una risoluzione delle Nazioni Unite che si prefigge sulla carta l’obiettivo della protezione delle popolazioni civili, stanno esponendo il nostro paese al rischio di una afflusso massiccio di migranti, anche perchè Gheddafi ha già minacciato gli stati europei e l’Italia in particolare di usare l’immigrazione come un’arma da rivolgere verso l’Europa. Eppure anche in presenza di questo gravissimo rischio, il comportamento del ministero dell’interno e dei Questori delle città maggiormente interessate, perché luogo di sbarco o sede di centri di detenzione, rimane quello classico del contrasto dell’immigrazione cd. “clandestina”.
Il 13 febbraio scorso il Questore di Torino ha emesso 35 decreti di respingimento “differito”con accompagnamento alla frontiera nei confronti di altrettanti tunisini sbarcati a Lampedusa.
Nei confronti delle stesse persone sono stati contestualmente emessi altrettanti decreti di trattenimento al CIE.
In questi decreti si fa riferimento alla direttiva rimpatri, citando l’art. 2, § 2, lett. a), laddove si stabilisce che gli Stati membri possono decidere di non applicare la direttiva ai cittadini di paesi terzi sottoposti a respingimento alla frontiera. Alla data del 21 febbraio la questura di Torino ha chiesto al consolato tunisino di Genova il rilascio di un lasciapassare cumulativo a nome dei 35 tunisini in attesa del quale i trattenimenti (già convalidati dal locale giudice di pace il 14.2) sono stati prorogati l’11 marzo. Come è stato osservato ( Savio), i decreti di trattenimento “illegittimamente richiamano l’art.2 § 2 lett. a della direttiva per la ovvia ragione che intanto gli Stati membri hanno la facoltà di non applicarla ai respinti, in quanto l’abbiano recepita. l’Italia non può avvalersi di una facoltà riconosciuta dalla direttiva se prima non l’ha trasposta nel diritto interno”.
Appare inoltre assolutamente opinabile che la Direttiva rimpatri si applichi a coloro che sono destinatari di un provvedimento di espulsione e non anche a chi riceve un provvedimento di “respingimento differito” emesso dal Questore. In entrambi i casi infatti la sorte è la stessa, si viene internati in ogni caso in un centro di identificazione ed espulsione e , se non è possibile eseguire immediatamente l’accompagnamento forzato in frontiera, sulla base di una normativa che oggi risulta in contrasto con la direttiva sui rimpatri, si viene rimessi in libertà con l’intimazione di lasciare entro 5 giorni il territorio nazionale.
Ad Agrigento sono stati iscritti nel registro degli indagati oltre 6.000 immigrati tunisini che nei primi mesi di quest’anno sono arrivati a Lampedusa, ritenuti dalla polizia colpevoli del reato di immigrazione clandestina. Toccherà adesso alla Procura ed al Tribunale di Agrigento verificare quanto le notizie di reato contenute nei verbali di polizia fossero fondate, e, soprattutto quanto e come sia applicabile in questi casi il reato di immigrazione clandestina. Il 24 dicembre 2010 è infatti scaduto il termine di attuazione della Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, senza che l’Italia vi abbia dato attuazione. Per effetto del consolidato diritto comunitario, una volta scaduto il termine di attuazione, la Direttiva può comunque essere utilizzata dal giudice interno, che può disapplicare le norme che risultino contrastanti, costituendo un criterio prevalente di interpretazione della complessiva normativa previgente.
La Direttiva 2008/115/CE, nella maggior parte dei casi, impone agli organi competenti ( Prefettura e Questura) di considerare l’espulsione con invito a lasciare il territorio nazionale, il cd. rimpatrio volontario, prima di adottare provvedimenti di allontanamento forzato, che comunque possono essere assunti solo sulla base della considerazione individuale del singolo caso, senza quegli “automatismi” (accompagnamento forzato e trattenimento amministrativo) introdotti dalla legge Bossi-Fini n.189 del 30 luglio 2002. La nuova configurazione dell’espulsione con accompagnamento forzato - come ipotesi residuale - incide anche sulla fattispecie del reato di immigrazione clandestina che comporta un avvio automatico del procedimento penale sulla base della “notizia criminis” dell’ingresso irregolare e può avere come conseguenza l’espulsione con accompagnamento forzato. Su questi aspetti si registrano già numerosi interventi della giurisprudenza, e la materia sembra destinata ad acquistare una rilevanza ancora maggiore alla luce dell’aumento degli arrivi in Italia di migranti provenienti dalle zone di crisi del Nordafrica. Non appare sostenibile, sul piano del rispetto dei diritti fondamentali della persona, oltre che per i costi economici ed il prevedibile ingolfamento dell’apparato giudiziario, il mantenimento di una disciplina che considera come reato penale qualunque ipotesi di ingresso irregolare, persino nei casi nei quali venga presentata una istanza di protezione internazionale, fino al momento della conclusione positiva della relativa procedura. E il governo potrebbe approfittare adesso dell’ennesima emergenza creata anche dalle sue stesse scelte, per adottare una normativa di attuazione, magari un decreto legge, da approvare a colpi di fiducia, che tradisca nella sostanza l’equilibrio richiesto dall’Unione Europea tra l’effettività delle misure di accompagnamento forzato ed il rispetto dei diritti fondamentali della persona.
3. Ma non bastava, a Maroni ed al suo governo, la criminalizzazione dei migranti che sono riusciti a raggiungere le coste siciliane in fuga da situazioni diffuse che comportavano il pericolo di un danno grave alla persona. E non bastavano neppure i ripetuti allarmi sulle infiltrazioni di “terroristi” tra i migranti in fuga dalla Tunisia. Si vuole stravolgere adesso il sistema nazionale per i richiedenti asilo piuttosto che implementare le strutture già esistenti dotandole di posti e risorse. Si sta tentando così l’ennesima operazione di facciata a costo zero con lo scopo di concentrare i richiedenti asilo nelle regioni meridionali, “sgravando” le regioni del nord da un onere di accoglienza che evidentemente queste dimostravano di non sopportare più. Ma soprattutto, con lo svuotamento di alcuni CARA si creano le condizioni per trasformare queste strutture in centri di detenzione chiusi nei quali trasferire i nuovi arrivati a Lampedusa. A Lampedusa si sta trasformando l’intera isola in un gigantesco campo di concentramento così da legittimare altri provvedimenti che si traducano nella detenzione a tempo indeterminato di coloro che sbarcano sulle nostre coste. Ancora una volta insomma si va verso un vero e proprio “stato di eccezione”.
Come ha affermato l’ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) in suo recente comunicato “i trasferimenti forzati, iniziati dal CARA di Bari e che stanno avvenendo manu militari, senza alcun provvedimento individuale, oltre che comportare inutili ingentissime spese, pongono, come già sollevato da tutti gli enti di tutela e dall’UNHCR, rilevanti problemi di legittimità per lo sradicamento delle competenze in sede amministrativa e giurisdizionale. Nei trasferimenti forzati in corso non si rinviene alcun criterio di ragionevolezza ed utilità relativamente ad un esame equo e veloce delle istanze di asilo già depositate (anzi appare evidente come l’intera procedura venga fortemente rallentata) e comunque avvengono senza tenere conto delle condizioni di vulnerabilità psico-fisica di molti richiedenti (persone traumatizzate, vittime di tortura, disabili, famiglie con minori etc) che avevano già intrapreso percorsi di accoglienza e di cura presso i servizi socio-sanitari nei vari territori, che vengono così bruscamente interrotti. Mentre il sistema italiano di accoglienza, incapace di fare fronte un numero di arrivi significativo ma finora del tutto gestibile, sta velocemente sprofondando verso il caos, il commissario straordinario per l’emergenza Prefetto Caruso da una settimana ignora la richiesta di incontro urgente avanzata da tutti gli enti di tutela italiani (ASGI, ACLI, ARCI, Caritas Italiana, CIR, FCEI, Comunità di S. Egidio, Ass. Senza Confine) di concerto con l’UNHCR”.
Questa linea del silenzio e del rifiuto di incontri, adottata dal Prefetto Caruso, nominato dal governo Commissario all’emergenza immigrazione a Lampedusa, costituisce un fatto gravissimo.
Occorre che il Governo adotti un provvedimento di protezione temporanea ex art. 20 del D.Lgs 286/98 nei confronti di coloro che stanno arrivando dalla Tunisia e che potrebbero presto arrivare anche dalla Libia. La gestione dell’accoglienza dovrà avvenire con modalità diffuse su tutto il territorio nazionale, reperendo nuovi posti anche nelle regioni settentrionali, attraverso il Servizio per la Protezione dei richiedenti asilo ed evitando le concentrazioni in Sicilia e a Mineo in particolare (area che per la sua vicinanza alla base militare di Sigonella è altresì la più esposta a possibili ritorsioni militari da parte del regime libico).
Le deportazioni forzate dei richiedenti asilo dai vari CARA italiani devono essere immediatamente sospese.
L’isola di Lampedusa deve essere al più presto decongestionata con trasferimenti quotidiani verso altre strutture di accoglienza e con l’abbandono del folle progetto di allestire una tendopoli nell’area della Riserva naturale. Sembra in questi giorni che la stessa improvvisazione e la stessa incomunicabilità delle istituzioni con la società caratterizzino tanto la politica estera, che la politica interna in materia di immigrazione ed asilo. Di fronte a questa serie di comportamenti irresponsabili e deleteri dal punto di vista della coesione sociale non rimane che chiedere le immediate dimissioni del ministro Maroni e la costituzione di un comitato interministeriale di crisi nel quale siano ammesse a partecipare le organizzazioni non governative, per individuare soluzioni capillari su tutto il territorio nazionale, per fare fronte alle conseguenze devastanti che potranno essere prodotte tanto dalle scelte in tema di politica estera,che dalla prosecuzione della guerra ai migranti, sia alle frontiere esterne, che, una volta giunti sul territorio italiano.
Le scelte del governo in materia di politica internazionale, e le modalità meramente repressive di “gestione” di un emergenza sbarchi, creata ad arte con il concentramento di diverse migliaia di profughi in luoghi simbolo come Lampedusa e Mineo, ormai si potrebbe dire luoghi sulla linea di un fronte di guerra, stanno dimostrando in modo sempre più evidente come l’Italia sia governata da politici che badano solo al proprio vantaggio elettorale ed alla difesa di tutte le zone più ricche e di tutte le sacche di privilegio presenti in Italia, anche a costo di scatenare una “guerra tra poveri”. Contro questa classe di governo, che si avvantaggia di una opposizione parlamentare sempre più debole, occorre costruire giorno per giorno nuove reti di solidarietà dal basso, aprire nuovi canali di comunicazione e costruire soggetti politici che siano capaci di aggregare tutte le forze dell’opposizione sociale. Magari, per battere la rassegnazione alla sconfitta e il settarismo auto-consolatorio, bisognerebbe prendere ad esempio il coraggio delle popolazioni che sull’altra sponda del Mediterraneo non esitano ad affrontare i carri armati che invadono le loro città. Ogni giorno che passa, anche attraverso le scelte irresponsabili adottate a livello di politica internazionale e di controllo dell’immigrazione, è sempre più a rischio il nostro futuro, la nostra democrazia.

Deportazioni dai C.A.R.A. verso Mineo - Lo stravolgimento del diritto d’asilo

Residence MineoInviate le segnalazioni sugli spostamenti verso Mineo a redazione@meltingpot.org o sulla nostra pagina facebook

Mentre Benghazi è sotto le bombe di Gheddafi, l’Italia inizia le deportazioni da Bari alla Sicilia: diritto d’asilo negato

di Progetto Melting Pot Europa

Benghazi è sotto un attacco del Governo libico senza precedenti ed in queste ore seguiamo con attenzione le notizie che ci vengono da Gabriele Del Grande e Stefano Liberti che si trovano proprio nella città assediata. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che prevede l’istituzione di una no fly zone. Le contraddizioni dei governi europei e mondiali esplodono di fronte al massacro libico. Sopra le scrivanie dei Palazzi del Governo italiano sono ancora uno sopra l’altro accatastati i protocolli di accordo con il dittatore libico che in queste settimane ha messo in atto una delle operazioni più violente contro i civili in sommossa degli ultimi anni. ..."Stiamo con Gheddafi che ci garantisce gli approvvigionamenti e la possibilità di fare i respingimenti congiunti. No, Gheddaifi è cattivo e lo scarichiamo perché abbiamo la coda di paglia. No ancora, Gheddafi potrebbe riprendere il controllo e garantirci stabilità e denari. Anzi, meglio fermarlo altrimenti ci mette in imbarazzo"...
E migliaia di civili sono morti il Governo italiano ha preparato anche la sua di operazione: un vero e proprio stravolgimento del sistema detentivo e di accoglienza, un duro colpo (se ancora ce ne fosse stato il bisogno) alle garanzie del diritto d’asilo.
Lampedusa scoppia, oltre al CIE sull’isola il prefetto straordinario Caruso ha annunciato per oggi l’apertura di una tendopoli nella zona (probabilmente) dell’ex base Loran.
Intanto si stanno per aprire le porte del residence degli Aranci di Mineo che dovrebbe "ospitare" in un regime di detenzione/accoglienza ancora parzialmente oscuro, circa duemila richiedenti asilo: una cittadella del confinamento.
Ma ciò che sta avvenendo in queste ore conferma i timori che in queste settimane sono andati via via diffondendosi da più parti rispetto alle modalità ed alle geometrie di questa operazione.
Lampedusa esplode e l’operazione Mineo sarebbe potuta servire (nella sua oscenità) a decongestionare una situazione che sull’isola sta diventando incandescente.
Di contro, in ogni angolo d’Italia, C.a.r.a. e Cie sono sovraffollati e non riescono più ad assorbire eventuali trasferimenti, ma soprattutto stanno diventando essi stessi ingovernabili (come nel caso Bologna, di Roma, o di Gradisca dove il Cie è ormai stato distrutto dalle rivolte).
Ma chi è destinato allora al confinamento di Mineo? Saranno i cittadini tunisini approdati in questo mese a Lampeusa?
Assolutamente no.
Le prime informazioni che arrivano dall’interno del Cara di Bari da parte di migranti in attesa del riconoscimento della protezione internazionale confermano che da ieri è partita una vasta operazione all’interno della struttura.
A seguito di questa molte persone non provenienti dalla Tunisia stanno per essere spostate fisicamente ed anche contro la loro esplicita volontà, verso la Sicilia. Il tutto sta avvenendo senza alcuna comunicazione scritta, sembra, senza neppure tener conto di casi eventualmente vulnerabili, della distinzione tra chi ha presentato ricorso contro il diniego della Commissione o è ancora in attesa di audizione, o di altre situazioni (ad es. "casi Dublino").
L’ operazione sta riguardando certamente cittadini afghani, pakistani, iracheni, iraniani.
Il Governo insomma sembra aver deciso di utilizzare Mineo per confinarvi i richiedenti asilo attualmente distribuiti nei Cara italiani cancellando con un volo ogni rete socio-assistenziali che i migranti stessi sono stati capaci di costruire nei mesi di permanenza nel Cara, e soprattutto il loro diritto di difesa (dovendo presenziare, almeno i ricorrenti, alle udienze di prima comparizione disposte dal Tribunale ed essendo molti in attesa di ricevere documenti proprio presso il Cara di Bari). L’operazione sembrerebbe però il preludio di una seconda trasformazione progettata dal Ministero dell’Interno: trasformare le strutture dei Cara in Cie per deportarvi i tunisini.
Intanto la condizione dei tunisini sull’ìsola di Lampedusa diventa sempre più drammatica e la determinazione del loro "status di soggiorno" procede in maniera assolutamente arbitraria: ad alcuni viene proposta la presentazione della domanda d’asilo, ad altri viene prospettato il regime detentivo, ad altri ancora viene notificato il respingimento differito con conseguente intimazione a lasciare il territorio. In molti stanno tentando di proseguire il viaggio verso l’Europa che desiderano (Parigi, Londra, Oslo, Berlino).
Da Bari, secondo quanto riferito, un primo volo sarebbe partito questa mattina alle 09.00 ed un altro intorno alle 11.00. Altri 57 migranti sarebbero arrivati a Mineo dal Cara di Pian del Lago, di Caltanissetta e Serraino-Vulpitta, di Trapani.
Lanciamo un appello per monitorare questa situazione in continua evoluzione in ogni angolo d’Italia, a partire da Bari, passando per tutti i Cara della penisola, fino a Gradisca d’Isonzo.
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Le notizie dalla Libia:
-  Bombe a Benghazi
-  Respinti a Benghazi
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Egitto - Divieto di sciopero e rabbia

Egitto Proteste"Nella tradizione, quando qualcuno della famiglia viene ucciso, non ci si può radere per i successivi 40 giorni e finché non viene fatta giustizia. E' dal 25 gennaio che non mi rado e sto ancora aspettando". Con queste parole Ahmad, istruttore di immersioni nel Mar Rosso, mi accompagna nella marcia che ieri è partita dall'area di Mespero, di fronte al palazzo della televisione e della radio pubblica al Cairo, alle 6 del pomeriggio. Il corteo, all'inizio nell'ordine delle centinaia di persone, è cresciuto di numero mentre passava sul lungo-Nilo. Poi, ha attraversato l'area di Tahrir e ha fatto sosta davanti al Parlamento. Verso le 8 della sera, la manifestazione è tornata indietro e si è fermata di nuovo nella piazza.
I motivi della protesta di ieri erano molteplici. Anzitutto la nuova legge, approvata dal governo ma non ancora ratificata dal Consiglio Supremo delle Forze Armate, che criminalizza scioperi e manifestazioni. Durante il corteo, molti anche gli slogan che chiedevano il processo ad Hosni e Gamal Mubarak, Ahmad Ezz, Safwat al-Sharif, Zakariyya Azmi e altri membri del regime e la sospensione dei vertici direttivi della radio e televisione egiziana, che hanno contribuito alla campagna governativa a favore di Mubarak. "Mio fratello è in prigione e Mubarak è ancora libero" e "Vogliamo un'informazione pulita", cantavano le persone scese per strada.
Moltissimi i lavoratori della televisione e gli aderenti ai sindacati indipendenti di nuova formazione e alla neonata Unione Indipendente dei Sindacati. Se durante il regime di Mubarak l'unionismo era tenuto sotto controllo dalla Federazione dei Sindacati Egiziani, che limitava le libertà sindacali, ora moltissimi lavoratori si stanno organizzando con unioni di categoria.
Mercoledì scorso il governo Sharaf ha reso pubblico il contenuto del nuovo provvedimento, che vieta proteste e scioperi. Subito è arrivata la condanna della Coalizione dei Giovani della Rivoluzione del 5 Aprile, di varie organizzazioni per la difesa dei diritti umani e del blocco dei sindacati. Come recitavano i cori di ieri "E' tornato Mubarak o cosa?!". La norma, infatti, se approvata dal Consiglio Supremo delle Forze Armate, prevede fino ad un anno di carcere per coloro che partecipano a proteste, sit-in, marce e scioperi che disturbino o fermino attività lavorative. In più è prevista un'ammenda che va dalle 30mila (circa 3.500 euro) alle 500mila ghinee egiziane (quasi 60mila euro). Anche chi incita e promuove le eventuali manifestazioni rischia una multa fino a 50mila ghinee (circa 6mila euro). Il provvedimento resterebbe in funzione fino alla sospensione dello stato di emergenza, in forze da 30 anni.
Una norma controversa, che il governo Sharaf, nella dichiarazione della settimana scorsa, difende con il bisogno di tornare alla normalità e far ripartire l'economia. L'ondata di scioperi che ha travolto il Paese negli ultimi due mesi deve interrompersi. Il governo ascolterà i bisogni espressi dai lavoratori e cercherà di soddisfarli. Tra i motivi della norma anche il timore che le proteste di questi giorni siano organizzate da ex-membri del regime che cercano di promuovere una contro-rivoluzione. Così ha ripetuto anche il Ministro della Giustizia al-Giundi. "Chi sciopera non dovrebbe farlo a spese degli altri e del loro diritto all'accesso ai servizi". Posizioni che sembrano suggerire soprattutto il timore di un possibile collasso dell'economia egiziana.
Un discorso che non ha senso per Ahmad. La "rivoluzione" egiziana è appena iniziata e "ora arriva la parte più difficile, visto che il Consiglio Supremo delle Forze Armate e il nuovo governo sono riusciti a dividere la popolazione. Molti egiziani adesso parlano di istikrar (il ritorno alla normalità), ma non capiscono che non ci può essere ritorno alla normalità finché tutte le domande della rivolta non sono soddisfatte. Qui a Tahrir abbiamo chiesto adala igtima'iyya (giustizia sociale) e la risposta è stata: divieto di sciopero, proprio ora che ce ne è più bisogno per far valere i diritti dei lavoratori". Continua a spiegarmi: "quella che abbiamo ora è una chance unica per sovvertire il regime che ci ha governati finora e cambiare veramente la società. Per farlo dobbiamo continuare a protestare e restare con gli occhi aperti 24 ore al giorno".
"Qui siamo tutti fratelli, senza differenze religiose e di appartenenza sociale, anche se l'esercito e i vecchi membri del regime provano a dividerci", dice Hamdi della comunità copta, ricordando lo spirito di unità nazionale che ha caratterizzato la protesta iniziata il 25 gennaio. "Quello che il Consiglio Supremo delle Forze Armate dovrebbe fare ora è sospendere lo stato di emergenza e non proibirci di protestare".
Voci che restituiscono parte dei problemi di una comunità divisa tra chi vuole tornare alla propria quotidianità e chi sente che la strada per un vero cambiamento sociale è ancora lunga.
Ieri sera è stato reso pubblico l'ultimo messaggio del Consiglio Supremo delle Forze Armate - ancora non è stata rilasciata la dichiarazione costituzionale che dovrebbe regolare il paese durante il periodo di transizione. Nel messaggio di ieri si legge che il Consiglio potrebbe postporre le elezioni presidenziali di un anno. In quel caso, l'Egitto dovrebbe aspettare fino al 2012 per conoscere il suo nuovo presidente. Uno scenario che apre molti interrogativi e rende lecito il sospetto di Badrawi, segretario del nuovo Wafd: che senso ha avuto correre al referendum costituzionale il 19 marzo se si dovrà aspettare ancora un anno per le elezioni presidenziali?
In ogni caso, il margine di tempo potrebbe facilitare l'organizzazione delle nuove forze partitiche, ma allo stesso tempo significherebbe estendere il controllo militare sulla politica egiziana per un altro anno. Il tutto con una costituzione che, dopo il referendum che ha visto il "si" vincere con il 77 percento dei consensi, risulta solo parzialmente emendata. Un risultato insoddisfacente per buona parte del panorama politico egiziano che chiede una costituzione nuova.

Tratto da:

Con il popolo libico e contro il nucleare

di Alfiero Grandi
Quanto sta accadendo in Libia è spaventoso. Al di là dell’immaginabile. I cannoni di Bava Beccaris contro i dimostranti sembravano un episodio incredibile, parte di un’altra epoca. Ora gli aerei del dittatore sanguinario Gheddafi portano l’orrore oltre la più cupa fantasia.
Occorre fare i conti con i fin troppi opportunismi ed errori che ci sono stati nei rapporti con questo ed altri regimi dittatoriali. Occorre scegliere con decisione di stare dalla parte di chi si batte per la fine di questo regime sanguinario pagando un prezzo altissimo in vite umane. Presunte convenienze economiche non possono venire prima di dei diritti e della vita.
Ovviamente i rivolgimenti libici fanno venire al pettine, più di Tunisia ed Egitto, problemi come l’approvvigionamento energetico e come al solito lo stupidario troppe volte dominante trova nuove occasioni per esprimersi, ad esempio rilanciando per l’occasione il nucleare come ha fatto qualche esponente della destra, novello dottor Stranamore.
Cosa c’entra il nucleare con la crisi libica ? Che rimedio può mai essere, prescindendo da ogni altra considerazione, sostituire l’eventuale venire meno del gas o del petrolio libici con una fonte energetica come il nucleare che nell’ipotesi più ottimistica sarebbe pronta non prima di 10 anni ?

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!