mercoledì 15 giugno 2016

Storie di donne e non solo tra religioni, islam e società in Egitto, Iran, Siria e Tunisia



Continua la nostra ricerca per offrire spunti di riflessione sul rapporto tra potere, religioni, islam e donne. Il nostro lavoro nasce dal desiderio di comprendere il presente fuori da schematismi, facili analisi/scorciatoie, luoghi comuni, approfondendo temi e situazioni che seppure appaiono lontano, ci riguardano direttamente.


Nel 
primo articolo abbiamo incentrato la nostra attenzione su testi che raccontavano storie di attivismo
, di scelta, di chi combatte sul piano personale e collettivo contro gli integralismo e l'autoritarismo, facce gemelle che cercano di strangolare vite e territori.
Questa volta vi proponiamo una selezione di libri che spaziano dalla Siria all'Egitto, alla Tunisia e alla riflessione sulle religioni monoteiste. 
Cosa lega questi testi? 

Per noi, la sempre più profonda convinzione che quello che sta succedendo in questo pezzo di mondo, difficile anche da definire in una sola parola, che va dal Marocco all’Iran, visto attraverso storie di donne e non solo, ci permette di squarciare il velo sulle declinazioni di un potere che intreccia autoritarismo ed islam politico. La perversa e pervasiva concezione che porta la religione da fatto privato a base della società nei suoi aspetti sociali ed anche istituzionali. Quello che ci spinge è la convinzione che la laicità profonda sia un valore fondamentale, che ha portato a molte delle conquiste, ancora da difendere ed allargare, che le donne hanno conquistato nel nostro pezzo di mondo. 
Come dicono le indigene zapatiste, dall’altro lato dell’Oceano nello stato del Chiapas in Messico, " quando una mujer avanza, no hay hombre que retroceda" (quando una donna avanza non c’è uomo che retroceda) o le donne curde, in Rojava "se non possiamo difendere e liberare noi stesse, non possiamo difendere o liberare altri. La nostra rivoluzione va oltre questa guerra."
Lo strangolante nesso che unisce patriarcato, sistema capitalista, religioni (al plurale) vuol essere alla base della nostra ricerca, partendo da testi che non si presentano come analisi compiute ma come racconti, squarci, riflessioni che come in un enorme puzzle ci possono aiutare a comprendere e a rafforzare la scelta di appoggiare e sostenere chi lotta per la propria libertà collettiva e personale, chi ha il coraggio di affrontare una realtà durissima per provare a cambiarla.

Siria.
Elogio dell’odio di Khalifa Khaled.
L’autore, da poco passato in Italia per un ciclo di conferenze, ha sempre condannato senza sconti la repressione del regime nel suo paese. Attraverso la storia dei protagonisti del suo racconto affronta le profonde radici della recente storia siriana. 
Damasco di Suad Amiry.
L’autrice, dopo i suoi imperdibili lavori sulla Palestina, affronta attraverso i ricordi familiari, l’intero secolo, passando tra gli infiniti legami dei paesi arabi per raccontarci squarci di Siria fatti di vite vissute.
Tunisia. 
Ouatann. Ombre sul mare di Filali Azza
Un racconto sul paese prima della rivoluzione del 2011 e che serve a capire cosa ancor oggi stanno combattendo le donne, i giovani attivisti, le reti sociali nella Tunisia profondamente in bilico tra una possibilità di cambiamento ed un mantenimento profondo dello status quo.
Egitto.
Cairo calling di Claudia Galal
Uno sguardo a mezzo tra Italia ed Egitto sulla scena underground prima, durante e dopo Piazza Tahir, che serve per capire qual’è la situazione nel paese dei faraoni, dove è stato ucciso Giulio Regeni.
Iran. 
Finché non saremo liberi. La mia lotta per i diritti umani di Ebadi Shirin
L’appassionato racconto della scrittrice, vincitrice del Premio Nobel, ci porta al cuore del regime iraniano, ora sdoganato nelle infinite capriole della politica internazionale e regionale del Medi oriente.
… e per fine Dio odia le donne di Giuliana Sgrena che offre spunti di riflessione sulle affinità e peculiarità dell’oppressione femminile ad opera delle tre religioni monoteiste.
Buona lettura.
Elogio dell’odio di Khalifa Khaled, edizione Bompiani, anno di pubblicazione 2011

La storia, che si dipana tra le mura della casa tradizionale nei vicoli del cuore di Aleppo, dove vive la famiglia allargata della protagonista, ci porta dalla Siria del passato, impossibile da far tornare, alla repressione del regime negli anni ottanta, fino alle sue drammatiche conseguenze. Un affresco, con tratti poetici, che, nella semplice complessità di ognuno dei personaggi, ci fa capire le radici della devastante situazione di guerra civile attuale.
Recensioni 
È un volume indispensabile ... tanto più pensando a quanto è accaduto e sta accadendo in questi mesi in Siria, con le repressioni del regime di Bashar Al Assad contro le manifestazioni di dissenso verso il regime di Damasco e migliaia di profughi siriani scappati in Turchia nelle ultime settimane.
Il libro racconta altre proteste e altre repressioni nel sangue, quelle di Hafez Al Assad contro i dissidenti – musulmani ma anche comunisti – nella Siria degli anni ’80, quando il padre dell’attuale presidente aveva inviato i militari ad Hama, terza città siriana, e fatto uccidere migliaia di contestatori. Lo splendido e complesso romanzo di Khalifa, non ingiustamente definito nella quarta di copertina una sorta di Cent’anni di solitudine del mondo arabo, parte dalle vicissitudini di una famiglia di Aleppo per raccontare la storia di un intero Paese.
La protagonista e voce narrante, una giovanissima ragazza ribelle alla cultura chiusa e tradizionalista della sua famiglia di venditori di tappeti antichi, incarna insieme i dubbi e le angosce di una giovane donna araba e lo spirito dei dissidenti del tempo, spesso donne, che per sfuggire alla morsa del regime si rifugiarono spesso in opposti estremismi come il fondamentalismo islamico. L’Aleppo di Khalifa è una città di spie e delatori, una città impensabilmente grigia di soldati e dissidenti, stretta nella morsa del regime e nell'odio delle opposte fazioni che si combattono quotidianamente in un crescendo di tensione.
Al centro dei vicoli deserti di quella città sconosciuta, la vecchia casa di famiglia della protagonista, cresciuta con le vecchie zie e l’anziano servitore cieco, tra vecchie storie, armadi chiusi, boccette di profumi sconosciuti e farfalle appese ai muri, incapace di tutto fuorché di un odio crescente verso l’altro. Odio che sembra diventare una vera religione e l’unica cosa a poter dare senso alla vita.
È l’odio ad accompagnare costantemente la giovane protagonista, portandola a rinchiudersi sempre più in se stessa, rifugiandosi nel fondamentalismo islamico quasi per sfuggire la solitudine, costringendosi dietro alla prigione del velo. E arrivando poi alla prigione vera, quella durissima del regime di Assad, dove viene rinchiusa per otto anni, interrogata, torturata con altre donne per le sue attività di dissidente. Ne uscirà giovane eppure ormai sfiorita, solo per rendersi conto, troppo tardi e ancora una volta, dell’inutilità dell’odio e della banalità del male.
Tratto da www.ilrecensore.com
Leggi anche la recensione di editoriaraba.wordpress.com.
Khaled Khalifa
Nato ad Aleppo nel 1964, ha frequentato la facoltà di legge e, dopo la laurea, si è dedicato alla letteratura, lavorando come sceneggiatore per il cinema e la televisione, per poi fondare la rivista culturale “Aleph”, in seguito censurata dal governo siriano. “Elogio dell’odio”, censurato dal governo siriano è nominato nel 2008 per il Premio internazionale del Romanzo Arabo.
Khaled, a cui nel 2012 è stata spezzata la mano dal regime, oggi continua a vivere in Siria. 
Nel 2012 invia una lunga lettera agli scrittori del mondo per denunciare la situazione complice a livello internazionale.
Nelle interviste non smette di ricordare la solitudine in cui sono state lasciate le persone che lottano veramente per un cambiamento radicale nel paese e i giochi geopolitici che si combattono sulla Siria.

Recentemente è stato in Italia, come ci racconta Osservatorio Iraq. Dal tour vi proponiamo l’incontro svoltosi a Milano



Damasco di Suad Amiry, edizioni Feltrinelli, anno di pubblicazione 2016

Oh Dio, famiglie! Nessuno avrebbe potuto darmi più sicurezza della mia famiglia. E, se è per questo, neanche più insicurezza e fragilità.
Dietro i racconti della famiglia Baroudi, delle donne della famiglia, si riflettono temi potenti che riguardano le vicende mediorientali ma anche argomenti di forte attualità nelle nostre società, come la domanda se la madre di un figlio è chi lo partorisce o chi lo alleva.
Ancora una volta. Come nei suoi precedenti lavori Suad Amiry ci sorprende per la profondità che si accompagna all’ironia, o meglio alla sottile auto-ironia, necessaria al mondo arabo ma ovunque per guardare ai propri limiti.
Recensioni 
Damasco suona magica e favolosa, e continua a suonare così mentre si riempie di violenza e di fantasmi. Nessuno meglio di Suad Amiry poteva raccontare il fulgore del passato per aprire una porta sul presente.
Il racconto comincia nel 1926, nel palazzo di Jiddo e Teta – marmi colorati, soffitti a cassettoni, fontane che bisbigliano nell'ombra –, comincia quando, dopo trent'anni di matrimonio, Teta torna per la prima volta ad Arrabeh, il villaggio da cui era partita poco più che bambina per andare in sposa al ricco e nobile mercante damasceno Jiddo.
Il viaggio di Teta – intrapreso nella speranza di poter dare l’ultimo saluto alla madre – imprime una svolta inattesa al suo matrimonio: il sensuale Jiddo la tradisce. Il perfetto equilibrio della casa sembra spezzarsi, ma poi la vita della famiglia riprende: la dolcezza delle consuetudini smussa le asperità, i rituali attenuano e riassorbono i contrasti, gli equilibri si riassestano. Suad Amiry conduce il lettore nei cortili e nelle stanze della famiglia Baroudi, con i fastosi pranzi del venerdì, le rivalità tra i figli maschi pigri e viziati, il vincolo indissolubile tra le figlie femmine. 
Passano gli anni, ed è ancora una volta l’arrivo di un bambino a sparigliare le carte, a far luce nelle pieghe più nascoste dell’intimità domestica: vengono così a galla segreti inimmaginabili, come quello che lega la tenera Karimeh alla sorella maggiore Laila, che con piglio inflessibile ha assunto il ruolo di capofamiglia. 
Ma chi è la vera madre di un bambino? La donna che lo ha partorito o quella che lo ha accudito un giorno dopo l’altro? E fino a che punto è lecito tacere per proteggere quello che si ama di più?
Una saga appassionante e poetica sospesa tra realtà e finzione, una rievocazione innamorata e nostalgica di un mondo raffinatissimo spazzato via dal fanatismo e dalla crudeltà, ma soprattutto una riflessione sul senso della maternità e sul silenzio come estremo gesto d’amore. Una storia e un affresco che dall’Impero ottomano arrivano al presente ulcerato del Medio Oriente. I personaggi sono memorabili, la scrittura leggera, le emozioni grandi.
Tratto da Feltrinelli
Ascolta la recensione in Fahrenheit
Suad Amiry 
Architetta palestinese, nata nel 1951, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah. 
Cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, ha studiato architettura tra Beirut, l’Università del Michigan ed Edimburgo. 
Dall’inizio degli anni ottanta vive e lavora a Ramallah. Ha scritto e curato numerosi volumi sui differenti aspetti dell’architettura palestinese. 
In Italia sono stati pubblicati i suoi romanzi Sharon e mia suocera (2003) , 
Se questa è vita (2005), 
Niente sesso in città (2007), Murad Murad (2009) e Golda ha dormito qui (2013).


Ouatann. Ombre sul mare di Filali Azza, edizioni Fazi Edizioni. anno di pubblicazione 2015. 

Ci sono tutti i prodromi della rivoluzione del 2011 e tutti i problemi della Tunisia di oggi nel romanzo della scrittrice tunisina. Nella villa sul mare nelle vicinanze di Biserta l’intreccio, a momenti noir, tra i vari personaggi parla di corruzione, di malavita, di traffici di migranti ma anche di un malessere che appartiene ad un mondo in bilico tra tradizioni, strangolanti ma rassicuranti, e il desiderio di cambiamento. I vari protagonisti vivono in bilico, come anche oggi vive l’intera Tunisia. 

Recensioni 
«Una delle penne più talentuose del Maghreb. Azza Filali, donna di lettere e di scienza, al tempo stesso impegnata e libera dal peso delle ideologie, si afferma come una delle voci più forti e sensibili della Tunisia odierna» - Le Monde 
Non esiste, nella lingua italiana, un termine che possa rendere la parola ouatann, restituircene il carico di significato. Perché ouatann, per le popolazioni che abitano la terra tra il Mediterraneo e il Sahara, non è solo la patria, ma è un’intera tradizione condivisa, è una lingua, un sistema di valori, di abitudini e di gesti, un certo modo di intendere la vita. 
Tunisia, 2008. Malavita e politica hanno suggellato il loro patto, il malaffare regna incontrastato. Un villaggio vicino a Biserta. La felicità danza, inafferrabile, al confine tra cielo e mare. In una villa isolata sulla spiaggia si incrociano i percorsi di cinque sconosciuti: Rached, giocatore incallito e funzionario frustrato; Naceur, ingegnere ex galeotto che da un giorno all'altro ha visto la propria vita crollare; Michkat, inquieta avvocatessa affezionata al passato; Faiza, giovane sfuggente e focosa; Mansour, uomo violento dedito a una serie di traffici illeciti. Tutti uniti dallo stesso desiderio: quello di un futuro che si fa attendere, in un paese in cui la miseria di alcuni, il lusso sfrontato di altri e la paralisi dei valori comunitari hanno privato le persone di una dimensione essenziale: il senso di appartenenza alla propria patria. Ma per chi ci vive, in questa patria, anzi in questa ouatann, l’unico destino possibile è partire? Che ne sarà allora della memoria collettiva di un popolo?
http://www.ibs.it/code/9788876256134/filali-azza/ouatann-ombre-sul.html
Leggi anche le recenzioni in www.artapartofculture.net e La Feltrinelli.


Azza Filali
Nata 1952. Nel 2009 ha conseguito un master in Filosofia all'Università Paris 1. E’ medico di professione ma scrittrice per vocazione. Autrice di due saggi, una raccolta di racconti e sei romanzi e vincitrice di diversi premi, tra cui il premio letterario Comar d’Or per la narrativa tunisina di lingua francese, Ouatann. Ombre sul mare è il suo primo romanzo tradotto in italiano.
Vai alle interviste 
Il piccolo - Alla mia Tunisia hanno rubato i sogni
La repubblica - Ecco l’orgoglio e il pregiudizio della Tunisia


Finché non saremo liberi. Iran. La mia lotta per i diritti umani di Ebadi Shirin edizioni Bompiani, anno di pubblicazione 2016
L’Iran è tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi mesi, dopo la scelta di riabilitazione internazionale. Una dinamica che si inserisce nei piani sempre più in continua ridefinizione delle alleanze dell’area a livello locale ed internazionale. 
Un Iran, fortemente motivato a continuare il braccio di ferro con Arabia Saudita e Turchia per il predominio nell’area, che si gioca a colpi di rivalità che vengono dipinte come religiose, tra sciti e sunniti e che giocano le loro mortali mosse attorno alla Siria, divenuto teatro di devastazione generale e all’Iraq. 
Il libro di Ebadi non racconta solo la storia di una donna che ha vinto il Premio Nobel ma l’accanimento perverso del regime contro gli oppositori. Ed immaginiamo se quello raccontato è il trattamento riservato ad un personaggio famoso, quale può essere quello inflitto ai tanti sconosciuti, nonostante un potere che si presenta come moderato, ma che continua a tenere in una stretta strangolante un intero paese, fatto soprattutto di giovani?
Recensioni 
«Mio marito resta a Teheran, era stato arrestato ma ora, per fortuna, non è più in carcere. In un primo periodo gli avevano confiscato il passaporto. Ora potrebbe anche venire a trovarmi, all’estero, ma ogni volta è obbligato a lasciare una cauzione consistente. È consapevole che la situazione in Iran non è idilliaca ma l’Iran è il suo paese e preferisce vivere lì. Non è il tipo da vivere in esilio». Così Shirin Ebadi, avvocato iraniana insignita del Nobel per la Pace nel 2003, parlava del marito Javad. Era uno dei primi giorni di gennaio 2014, mi trovano nel suo ufficio londinese, in un grattacielo nel quartiere Hammersmith. Un’intervista, in coda a tante altre, da pubblicare nel piccolo volume Il mio esilio uscito in digitale negli Zoom di Feltrinelli e poi in cartaceo per Jouvence.
Parlando del marito Javad, Shirin Ebadi cercava di celare la malinconia. Ma non solo, perché il suo nuovo libro di memorie Finché non saremo liberi, appena pubblicato da Bompiani, rivela una realtà diversa: finito in una trappola del regime iraniano, una sera a Teheran il marito aveva bevuto un bicchiere di troppo ed era stato sedotto da una conoscente, ci era finito a letto ed era stato filmato dai servizi segreti della Repubblica islamica. Subito arrestato, era stato condannato alla lapidazione per adulterio.
Per sfuggire alla pena capitale, aveva accettato di collaborare con il regime, rilasciando una testimonianza in video in cui accusava la moglie di essere complice di un Occidente deciso a rovesciare la Repubblica islamica. Un amore durato più di trent’anni si è così spezzato. Per il tradimento, più che per la confessione mandata in onda – insieme a tante altre – dalla televisione di stato. O forse perché, come dirà più tardi Javad, seduto su una panchina del parco di Boston dove finalmente può vedere il nipotino, «l’unica cosa che sei riuscita a fare è rendere infelice te e la tua famiglia».
Dopotutto, le fa notare il marito, nonostante le attività delle organizzazioni non governative in Iran le violazioni dei diritti umani continuano. Le autorità iraniane hanno arrestato il marito, la sorella, i collaboratori di Shirin Ebadi. Il prezzo della lotta per i diritti umani Shirin Ebadi l’ha pagato e continua a pagarlo: le due figlie Nargues e Negar vivono all’estero, al sicuro, come lei. Ma Shirin resta sola, perché nel tentativo di sfuggire alle continue persecuzioni di regime il marito Javad ha chiesto il divorzio. Non più giovani, vivono lontani. E conclude Shirin, non c’è nulla «di più malinconico che preparare una teiera da uno, con un solo cucchiaino di foglie di tè».
Tratto da Io Donna
Leggi altre recensioni in La Feltrinelli e Libreria Universitaria.

Shirin Ebadi 
Nasce nel 1947. Dopo la rivoluzione islamica del 1979, è costretta ad abbandonare il lavoro di giudice, come tutte le altre donne. Riesce a mala pena a poter continuare a frequentare i Tribunali come “esperta”. Tra mille difficoltà e intimidazioni di ogni tipo, per lei e per chi le sta vicino, famiglia e collaboratori, apre un proprio studio, con cui si occupa di casi scomodi, come quelli dei dissidenti. 
Nel 2003 le viene assegnato il Premio Nobel per la pace. 
Nel 2009 è costretta a restare a Londra, dove si trovava per una conferenza, perché contro di lei vengono inventate accuse di ogni genere ed in Iran la situazione si fa quanto mai pericolosa.
Dall'Europa continua a denunciare la sistematica violazione dei diritti civili ed umani, continuando ad avere speranza di un cambiamento reale nel paese.
Cairo Calling di Claudia Galal, edizioni AgenziaX, anno di pubblicazione 2016 
Dalla sparizione e l’omicidio di Giulio Regeni, la realtà quotidiana di violazione dei diritti umani nel paese guidato da Al Sisi, ha iniziato ad essere compresa da molti. Si tratta di una cappa che cerca di soffocare l’intera società egiziana. Una situazione che viene nascosta da un’omertà internazionale complice, dettata dagli interessi che si muovono intorno al possibile ruolo nell'area dell’Egitto. Il governo italiano non è da meno, impegnato a difendere i possibili guadagni del più grande giacimento di gas, scoperto dall’Eni a Zohr. 
L’Egitto vero, che oltre le disinllusioni seguite alla rivoluzione di Piazza Tahir, è anche quello che emerge dalle vite delle donne ed uomini intervistati da Claudia Galal. Tra musica, street art, graffiti, scopriamo l’underground del paese dei faraoni. Esperienze pulsanti che cercano la strada per esprimersi anche in una situazione quanto mai asfissiante. I viaggi di Claudia Galal, il suo sguardo tra Italia e Egitto riflettono le speranze, le contraddizioni, la ricerca generazionale che attraversa un’intera generazione tra le due sponde del Mediterraneo.


Murales egiziano
Nel gennaio 2011 Piazza Tahrir diventava l’ombelico del mondo, il cuore della Primavera Araba e della rivoluzione egiziana. Purtroppo non mi trovavo lì, dove i giovani del Cairo stavano facendo la storia, ma anche a distanza mi rendevo conto della portata epocale di quello che stava succedendo.
Ho iniziato a prendere appunti, a registrare dati, nomi, elementi, a prestare attenzione a volti, immagini, simboli. Non sapevo ancora che cosa ci avrei fatto, ma non volevo perdermi più di quello che mi stavo già perdendo, non essendo là.
Poi sappiamo tutti com’è andata – come sta andando – e negli anni quella massa di annotazioni è diventata un libro, Cairo calling, in uscita il 26 maggio 2016 per Agenzia X. Seguendo le mie passioni, mi sono concentrata soprattutto sull’esplosione e l’evoluzione delle controculture (rock, musica elettronica, rap, street art), che in questi ultimi cinque anni e mezzo sono state inevitabilmente legate alla situazione socio-politica.
Quelle che seguono sono le prime righe di Cairo calling, che comincia dal 25 gennaio 2011 e si chiude con la drammatica uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni, in un necessario e doloroso finale aperto.
«Primi giorni del 2011. Al sicuro, protetta nel guscio della mia metà italiana, seguo con trasporto e preoccupazione quello che succede in Egitto, dov’è nato e cresciuto mio padre e dove affonda una parte delle mie radici. È il 25 gennaio…
All’ora di cena rientro a casa con addosso un’ansia pesante. Durante il giorno ho seguito le notizie dall’Egitto dal computer dell’ufficio, ma fra le mille cose da fare non sono sicura di aver capito qualcosa. Mentre salgo le scale del mio condominio in zona Giambellino, dove gli unici non egiziani sono il mio fidanzato e la famiglia cinese del piano di sotto, si confondono e si sovrappongono voci di telegiornali in arabo e discussioni concitate. A tratti mi sembra tifo da stadio, come se i miei vicini volessero spingere qualcuno verso un’impresa impossibile.
Intanto ricevo qualche messaggio sul mio cellulare obsoleto: “Che casino al Cairo”, “I tuoi stanno bene?”, “Che cazzo state combinando?!”. Ma io non sono lì, purtroppo, e non ho ancora avuto tempo di mettere insieme i pezzi di questa giornata storica.
Entro in casa e, come in quella vecchia canzone, “questa stanza non ha più pareti”, perché distinguo perfettamente i discorsi animati dei ragazzi di fianco, giovani immigrati che tutte le notti si ammazzano di fatica al mercato ortofrutticolo.
Non capisco ogni frase, ma la parola chiave arriva forte e chiara. Rivoluzione!
Senza togliermi nemmeno il cappotto, accendo tv e computer, così seguo contemporaneamente la diretta del telegiornale e il flusso di notizie che emerge dalla rete, dai social network in particolare. Chiamo anche mio padre, abbastanza sconvolto e confuso quanto me, e mi assicura che la nostra famiglia sta bene. […] La rivolta era nell’aria. Nelle ultime settimane continuavano ad arrivare le immagini piene di rabbia, dolore e frustrazione delle rivolte tunisine, mentre qualche voce di protesta, ancora debole e isolata, si sollevava anche in Egitto.
Fino a oggi, 25 gennaio 2011, quando moltissime persone rispondono all’appello della pagina Facebook “We are all Khaled Said”, dedicata al giovane ucciso qualche mese prima dalla polizia di Alessandria in circostanze poco chiare, con l’intenzione di sabotare il National Police Day. Un’ondata di manifestanti si riversa per le strade del Cairo e di Giza, raccogliendosi nella centralissima piazza Tahrir, mentre altre proteste esplodono nelle città del paese, da Suez a Ismailiya, da Alessandria a Mansoura, da Tanta ad Aswan. [...]»
Oggi siamo tutti indignati e arrabbiati, giustamente, con l’Egitto. Ma non bisogna commettere l’errore di identificare un popolo con il regime che lo affligge. Le voci del dissenso sono tante e si esprimono in tanti modi diversi, certo non da oggi, ma da anni.
Ho cercato di raccoglierle, molte di queste voci, perché mi chiamavano forte e non potevo far finta di non sentirle. Il risultato è Cairo calling. L’underground in Egitto prima e dopo la rivoluzione (Agenzia X Edizioni). 
Tratto da Agenzia X
Claudia Galal 
Italoegiziana, nasce a Urbino e studia a Bologna. Oggi vive a Milano, dove lavora nel campo dell’editoria e della comunicazione. Si interessa soprattutto di musica e street art. Ha pubblicato il volume Street Art e ha partecipato alla realizzazione della guida Re/search Milano.
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Dio odia le donne di Giuliana Sgrena, edizioni Il saggiatore, anno di distribuzione 2016 
Giuliana Sgrena ha scritto un libro coraggioso, in un’epoca in cui la fascinazione verso alcuni leader religiosi riesce a velare i pesanti attacchi portati quotidianamente ai diritti delle donne. Dio odia le donne rafforza una certezza: quanto sia umano, e solo umano, questo odio.
Raffaele Carcano e Adele Orioli
Se in Rivoluzioni velate si analizza come le donne, protagoniste indiscusse della Primavera araba stanno rischiando di diventare le prime vittime della controffensiva islamista, dopo che i partiti di stampo religioso sono stati "legalizzati", il nuovo lavoro di Giuliana Sgrena apre la riflessione a 360 gradi sul legame tra le religioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islamismo, e l’oppressione femminile. Il testo con l’analisi comparata di comportamenti, divieti e punizioni sulle donne ci permette di fare un’operazione di pulizia mentale e ci mette di fronte alla necessità imprescindibile di opporci all’invasiva stretta delle religioni nel nostro qui come ovunque.
Recensioni
Si intitola Dio odia le donne (pp. 2014, euro 18) ed è il nuovo libro di Giuliana Sgrena pubblicato di recente da Il Saggiatore. Fin dall’introduzione si apprende che non si tratta di un pamphlet, né è un lavoro che desideri offrire una nuova esegesi delle fonti o una disquisizione teologica. La disposizione attraverso cui leggere questo volumetto, agile e al contempo solido, equipaggiato di dati ma godibile nella scrittura tagliente e svelta, si adegua allora a ciò che la stessa Sgrena dichiara di aver effettuato: una narrazione di carattere esperienziale, frutto di una ricerca personale che l’ha portata ad analizzare l’immaginario e le ricadute sociali che emergono nel confronto tra le tre religioni monoteiste e il sesso femminile.
La ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia dell’autrice. A essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni interne alle singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il patriarcato; ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e dei suoi simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e consumo testi, scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico scopo di controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso, il libro colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta per la copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e liscia nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero suora, intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della suora apre e chiude il volume, dapprima legata all’infanzia di Sgrena che si è misurata con delle scuole cattoliche e che, in considerazione del padre comunista, veniva costantemente avvisata delle preghiere per lei. Così alla fine, quando racconta che una suora incontrata per caso le rammenta che in molte e molti hanno pregato durante la sua prigionia. Ma lei no, certo grata per la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato neppure in quelle ore di dolore: «anche quando sentivo la morte vicina, ogni volta che i miei guardiani giravano la chiave nella toppa della porta e pensavo potesse essere arrivata la mia fine, quando avevo paura all’idea che mi potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a restituire un approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna che ha contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli attraversamenti storico-politici di oppressione senza per questo tacere i guadagni delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con quel rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei primi gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e al rovescio. Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella restituitaci da Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti contesti, di ulteriori e ben più terrestri storture nella sua appropriazione. Lo racconta la giornalista che ha intervistato alcune giovani musulmane e che hanno accusato il disagio di non poter vivere con agio la propria sessualità. Esistono in questa configurazione, ad altre latitudini, vere e proprie «fabbriche della verginità», che propongono per esempio l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc Abecassis, per 2000 dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai, che confeziona per 15 dollari un imene artificiale con accluse gocce rosse, simili al sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità richiama quello più vasto del controllo proprietario della sessualità femminile; i dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università di Cambridge dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo uno studio condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti ascoltati si sono dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi culturali duri a morire, come quello legato alla piaga ancora devastante delle mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade ancora in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna Adan Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a questo efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto il mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana Nawal El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia, drammaticamente, a quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori di coscienza che hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della 194. Se allora è in nome della fede che si sdoganano pratiche simili, sarà il caso di soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri nodi, ancora irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa rispondere con l’agire politico
Tratta da Il Manifesto
Leggi anche la recensione in www.uar.it
e da Il Saggiatore
Giuliana Sgrena
Nata nel 1948 è una giornalista e scrittrice. 
Nella sua carriera di cronista, Sgrena ha avuto modo di realizzare numerosi resoconti da zone di guerra, tra cui Algeria, Somalia ed Afghanistan. Si è occupata particolarmente della condizione della donna nell’Islam, 
E’ stata rapita nel 2005 in Iraq e dopo la sua liberazione, uno dei funzionari del SISMI a bordo dell’auto che la riportava nella capitale irachena, Nicola Calipari, rimane ucciso ad un posto di blocco.
I suoi libri sono: Kahina contro i califfi. Islamismo e democrazia in Algeria del 1997, Alla scuola dei taleban del 2002, Il fronte Iraq. Diario di una guerra permanente del 2004, Fuoco amico del 2005, Il prezzo del velo. La guerra dell’Islam contro le donne del 2008, Il ritorno. Dentro il nuovo Iraq, del 2010, Rivoluzioni violate. Primavera laica, voto islamista, Milano, del 2014.

mercoledì 8 giugno 2016

Arabia Saudita - #FreeRaif - La mia lotta per salvare Raif Badawi


Pubblicato a maggio il libro di Ensaf Haidab, la moglie del blogger Raif Badawi, condannato alla pena disumana di 1000 frustate e dieci anni di carcere nel maggio 2014 per oltraggio all’Islam.

La donna, che insieme ai figli vive in Canada dopo essere stata costretta a scappare, ha scritto insieme a Andrea C. Hoffmann, scrittrice e giornalista tedesca, un libro che è una chiara ed appassionata denuncia di quel che avviene in Arabia Saudita.


La persecuzione contro Raif si è allargata a tutta la sua famiglia tanto è vero che la sorella Samar Badawi, in gennaio è stata arrestata e poi rilasciata.


La storia di Raif
Dopo la prima parte dell’esecuzione, le prime 50 frustate inflitte nel gennaio 2015, sull’onda delle proteste internazionali, viste le sue condizioni di salute, Raif non è stato più colpito fisicamente ma continua ad essere incarcerato in attesa di subire la continuazione del flagello.


Poco o niente si sa della sua condizione. Le poche notizie che filtrano dalle mura del sistema carcerario saudita dicono che Raif ha portato avanti negli scorsi mesi uno sciopero della fame durato una ventina di giorni per opporsi ad un trasferimento. 


Per il resto tutto tace. O meglio il Governo dell’Arabia Saudita è totalmente impermeabile alle critiche che gli giungono sul tema dei diritti umani.

Ipocrisie internazionali

Al giovane scrittore è stato assegnato il Premio Sacharov. A livello internazionale in particolare dal Canada, dove risiede la moglie Ensaf Haidar, continua ad essere alimentata la campagna internazionale per la liberazione di Raif.

L’ipocrisia che copre tutta la vicenda si intreccia con gli interessi multilevel che troppi paesi hanno con il potentato che guida l’Arabia.
Le assurdità e contraddizioni sembrano aumentare ogni giorno. Nonostante la ratifica della Convenzione contro la Tortura, i processi continuano ad essere svolti in maniera sommaria, senza il minimo rispetto dei più basilari diritti infliggendo pene disumane, tra cui appunto la flagellazione.
 

L’Arabia Saudita pare tenere particolarmente all'immagine di sé nell'opinione pubblica tanto da aver partecipato, a seguito dell’attentato nella redazione di Charlie Hebdo, alla manifestazione di solidarietà a Parigi, in cui in prima fila hanno sfilato numerosissimi capi di Governo o Ministri, compreso il Ministro degli Affari Esteri saudita. Ciononostante due giorni dopo Raif riceveva, in piazza di fronte ad una folla urlante, le prime cinquanta frustrate della sua condanna. 

L’ipocrisia non ha limiti e infatti l’ambasciatore saudita all’Onu Feisal bin Hassan Trad è stato nominato presidente del Gruppo consultivo del Consiglio per i diritti umani delle nazioni Unite. Ovvero di una struttura che viene considerata la punta di diamante del Consiglio dei diritti umani.

Perché si tace sulla sistematica violazione dei diritti umani in Arabia Saudita?
La questione dei diritti umani in questo nostra contemporaneità, segnata dai giochi delle alleanze mobili, che si muovono nello scacchiere geopolitico del Medi oriente, diventa uno straccetto da sventolare in maniera timida. 


La vicenda di Raif dice più di tante approfondite analisi su quale sia il rapporto del cosiddetto Occidente e non solo con l’Arabia Saudita, formalmente alleato nella guerra al terrorismo, salvo foraggiarlo in maniera indiretta. Stiamo parlando di una potenza che aspira, nel contrasto con l’Iran, in gara con l’Egitto e la Turchia ad essere potenza chiave dell’area. Un paese che con i giochi pericolosi intorno al prezzo del petrolio, sta segnando la sorte dell’oro nero a livello globale, con le sue ricadute in interi continenti come l’America Latina.


La campagna per la libertà di Raif non è un affare locale, è un tema che riguarda vicino tutti noi perché quel che accade in quel pezzo di mondo si intreccia con i nostri destini.



Il mio combattimento per salvare Raif Badawi.

Sin dal primo momento l’impegno di Ensaf a favore della causa e della lotta del marito è stato instancabile e appassionato.
La moglie di Raif ha ormai attraversato tutta l’Europa e molti altri Stati per cercare di riportare il marito a casa e ottenere la sua liberazione, organizzando incontri con rappresentanti dei governi, giornalisti, media, sostenitori della sua causa, oppure partecipando a convegni, manifestazioni e consegne di premi.

giovedì 2 giugno 2016

EZLN - Sulle Elezioni: organizzarsi

Organizzarsi
(Sulle elezioni)
Subcomandante Insurgente Moisés
Aprile-Maggio 2015.

Alle/i compagne/i della Sexta:

A coloro che stanno ascoltando e leggendo perché gli interessa sebbene non siano della Sexta:

Ogni volta che avviene ció che chiamano “processo elettorale”, sentiamo e vediamo che se ne escono col fatto che l’EZLN chiama all’astensione, cioè che l’EZLN dice che non si deve votare. Dicono questa e altre stupidaggini, a niente serve loro la testa grande, visto che non studiano la storia e neppure ci provano. E perfino scrivono libri di storia e biografie e prendono soldi per tali libri. Ovvero, guadagnano per dire bugie. Come i politici.

Chiaro che voi sapete che a noi non interessa ciò che fanno quelli di sopra per cercare di convincere la gente di sotto del fatto che la prendono in considerazione.

Come zapatisti non chiamiamo a non votare e nemmeno a votare. Come zapatisti che siamo ciò che facciamo, ogni volta che è possibile, è dire alla gente che si organizzi per resistere, per lottare, per ottenere ciò di cui si ha bisogno.

Noi, zapatisti, come molti altri popoli originari di queste terre, ormai conosciamo il modo di fare dei partiti politici, e si tratta di una brutta storia di brutta gente.

Una storia che per noi come zapatisti che siamo, ormai è storia passata.

Credo che fu il defunto Tata Juan Chávez Alonso a dire che i partiti politici dividono la gente nei villaggi, li mettono gli uni contro gli altri, li fanno litigare perfino tra familiari.

E di quando in quando, vediamo che questo accade anche dalle nostre parti.

Voi sapete che in varie comunità nelle quali stiamo, c’è gente che non è zapatista, che vive male senza organizzarsi e aspettando che il malgoverno passi loro la sua elemosina per farsi qualche foto, per mostrare che il governo è buono.

Allora vediamo che, ogni volta che ci sono elezioni, alcuni si vestono di rosso, altri di azzurro, altri di verde, altri di giallo, altri scoloriti. E così combattono tra di loro, a volte tra gli stessi familiari. Perché combattono? Ebbene, per vedere chi li comanderà, a chi obbediranno, chi gli darà ordini. E pensano che se vince il tale colore, chi ha appoggiato quel colore riceverà più elemosina. E allora li vediamo dire che sono ben decisi e consapevoli nell’aderire a un partito, e a volte arrivano ad ammazzarsi per un fottuto colore. Perché sono quelli che già comandano a volere l’incarico, a volte vestendosi di rosso, o di azzurro, o di verde, o di giallo, o mettendosi un nuovo colore. E dicendo che fanno parte del popolo e che bisogna appoggiarli. Ma non fanno parte del popolo, sono gli stessi governanti che un giorno sono deputati locali, un altro sono sindaci, un altro sono funzionari di partito, poi sono presidenti municipali e così via, saltando da un incarico all’altro, e anche da un colore all’altro. Sono gli stessi, gli stessi cognomi, sono i familiari, i figli, i nipoti, gli zii, i cugini, i parenti, i cognati, i fidanzati, gli amanti, gli amici degli stessi bastardi e bastarde di sempre. E dicono sempre la stessa roba: dicono che salveranno il popolo, che ora si comporteranno bene, che non ruberanno più così tanto, che aiuteranno i poveracci, che li tireranno fuori dalla miseria.

Ebbene, si spendono i loro soldi, che ovviamente non sono loro bensì sono presi dalle tasse. Però queste bastarde e bastardi non spendono i soldi per aiutare o sostenere i poveracci. No. Li spendono per mettere i loro nomi e le loro foto nella propaganda elettorale, negli annunci delle radio e televisioni commerciali, nei loro giornali e riviste a pagamento, e compaiono perfino al cinema.

Ebbene, quelli che nelle comunità sono sostenitori sfegatati di un partito al momento delle elezioni e molto consapevoli del loro colore, quando alla fine viene fuori chi ha vinto passano tutti a quel colore, perché pensano che così gli verrà dato il loro regalino.

Per esempio, ora gli daranno un televisore. Ebbene, come zapatisti che siamo noi diciamo che gli stanno dando una pattumiera, perché attraverso la televisione gli manderanno un mucchio di spazzatura.

Ma se prima il problema era che gli dessero tutto o no, ora non gli danno e non gli daranno più nulla.

Se glielo davano, era perché diventassero scansafatiche. Si sono perfino dimenticati come si lavora la terra. Se ne stanno lì, aspettando che arrivino i soldi del governo per spenderseli in bevute. E se ne stanno lì nelle loro case, sfottendoci perché noi andiamo a lavorare nei campi mentre loro non fanno che aspettare che ritorni la moglie, la figlia, mandate a ritirare il sussidio, il sostegno del governo.

E così via, finché non arriva più. Senza preavviso, non esce nei media prezzolati, nessuno viene a dirgli di essere i loro salvatori. Semplicemente, cessa il sostegno. E quel fratello o sorella si rende conto di non aver più nulla, né per le bevute, né tanto meno per il mais, i fagioli, il sapone, i pantaloni. E allora deve tornare nei campi ormai in abbandono, inselvatichiti che nemmeno ci si può camminare. E siccome si è ormai dimenticato come si lavora, gli si gonfiano le mani tanto che nemmeno può impugnare il machete. Lo hanno fatto diventare un essere inutile che vive solo di elemosine e non di lavoro. Ecco ciò che già sta succedendo. Non esce nelle notizie dei malgoverni. Al contrario, esce che vengono dati molti fondi.

Ma nei villaggi non arriva più nulla. Dove va a finire il denaro che il malgoverno dice di stare dando per la campagna di elemosine sulla fame? Ebbene, lo sappiamo che là sopra hanno detto che ci sarà meno denaro o che semplicemente non ce ne sarà più. Voi credete che, mentre il contadino ormai campa di elemosina e si dimentica di lavorare, quello che sta sopra e che gli passava il sussidio lavori? No, anche quello di sopra è abituato a ricevere gratis. Non sa vivere onestamente lavorando, sa solo vivere occupando incarichi di governo.

Quindi succede che essendoci meno soldi non arriva più nulla. Resta tutto di sopra. Un po’ lo arraffa il governatore, un altro po’ il giudice, un altro po’ il poliziotto, il deputato, il presidente municipale, il sindaco, il leader contadino e a quel punto alla famiglia del sostenitore di partito non arriva più nulla.

Prima sì che arrivava, ma ora non più. “Che succede?”, chiede il sostenitore di partito. E pensa che il problema sia che il tal colore non serve più, e prova a passare ad un altro colore. Il risultato è lo stesso. Nelle assemblee i sostenitori di partito si incazzano, si urlano addosso, si accusano l’un l’altro, si chiamano traditori, venduti, corrotti. E in effetti sì, sia quelli che gridano che quelli che subiscono le urla sono traditori, venduti e corrotti.

E allora, la base di questi partiti si dispera, si angustia, è presa dalla pena. È svelato l’inganno perché nelle nostre case zapatiste c’è il mais, ci sono i fagioli, c’è la verdura, c’è quel minimo di soldi per le medicine e i vestiti. E dal lavoro collettivo viene fuori quel che serve per sostenerci tra di noi in caso di necessità. C’è la scuola, c’è la clinica. Non è il governo che ci viene ad aiutare. È che noi stessi ci aiutiamo tra compagni zapatisti e con le compagne e i compagni della Sexta.

Allora viene il fratello affiliato al partito e ci chiede cosa fare, perché è messo male.

Ebbene, sappiate cosa rispondiamo noi:

Non gli diciamo di cambiare il partito per un altro meno peggio.

Non gli diciamo di votare.

Nemmeno gli diciamo di non votare.

Non gli diciamo di farsi zapatista, perché lo sappiamo bene, per la nostra storia, che non tutti hanno la forza d’animo di essere zapatisti.

Non lo prendiamo in giro.

Semplicemente gli diciamo di organizzarsi.

“E poi che devo fare?”, ci chiede.

E allora gli diciamo: “Veditela da solo sul da farsi, secondo quel che ti dice il tuo cuore, la tua testa, e non che venga qualcun altro a dirti cosa devi fare”.

E lui ci dice: “E’ che la situazione è veramente incasinata”.

E noi non gli diciamo bugie, non gli facciamo chissà che grandi discorsi. Noi gli diciamo soltanto la verità:

-  Non farà che peggiorare”.
-*-

Sappiamo bene che così vanno le cose.

Ma come zapatisti abbiamo anche ben chiaro che c’è ancora gente che da altre parti, nelle città e nelle campagne, cade nella trappola di mettersi con i partiti.

Sembra molto vantaggioso mettersi coi partiti, perché si guadagnano soldi senza lavorare, senza sbattersi per guadagnare pochi centesimi e avere il minimo per mangiare, vestirsi e curarsi.

Ciò che fanno quelli di sopra è ingannare la gente. Questo è il loro lavoro, vivono di questo.

Vediamo che c’è gente che ci crede, crede che la situazione migliorerà, che il tal dirigente risolverà il problema, che si comporterà bene, che non ruberà molto, che intrallazzerà solo un po’, che bisogna provare.

Quindi noi diciamo che sono pezzi di piccole storie che devono passare. Che devono constatare con i propri occhi che non ci sarà nessuno che risolverà il problema, ma che dobbiamo risolverlo noi stessi, stesse, come collettivi organizzati.

Le soluzioni le dà il popolo, non il leader, non i sostenitori dei partiti.

E non lo diciamo solo perché suona bene. È perché lo abbiamo visto accadere realmente, è perché già lo facciamo.

-*-

Può darsi che molto tempo fa, alcuni aderenti ai partiti di sinistra, prima di istituzionalizzarsi, cercassero di creare coscienza tra il popolo. Non cercavano il potere attraverso le elezioni, ma di smuovere il popolo perché si organizzasse, e lottasse, e cambiasse il sistema. Non solo il governo. Tutto, tutto il sistema.

Perché dico aderenti ai partiti di sinistra istituzionale? Be’, perché sappiamo che ci sono partiti di sinistra che non sono coinvolti negli intrallazzi di sopra, che hanno le loro modalità, ma non si vendono, né si arrendono, né cambiano il loro pensiero sul fatto che bisogna finirla con il sistema capitalistico. Perché lo sappiamo, e noi come zapatisti non lo dimentichiamo, che la storia della lotta di sotto è scritta anche con il loro sangue.

Ma la grana è la grana e il sopra è il sopra. E gli aderenti ai partiti di sinistra istituzionale hanno cambiato il loro modo di pensare che è diventato la ricerca di un posto, per i soldi. Semplicemente: i soldi. Cioè la grana.

O pensate che creare coscienza si faccia disprezzando, umiliando, criticando la gente di sotto? Dicendogli che sono dei mangiapanini che non pensano? Che sono ignoranti?

Pensate di creare coscienza se chiedete il voto alla gente e allo stesso tempo la insultate dicendo che sono dei bavosi che si vendono per una televisione?

Pensate che creino coscienza se, quando gli si dice: “senti tu, uomo di partito di sinistra, quel capretto o capra, che tu dici essere la speranza, è già stato di altri colori e non è che un ratto”, ti rispondono che sei venduto a Peña Nieto?

Pensate che creino coscienza se dicono alla gente la menzogna che noi zapatisti diciamo di non votare; magari perché stanno vedendo che forse non otterranno l’elezione, ossia più grana, e stanno cercando un pretesto per incolpare qualcuno?

Pensate di creare coscienza tenendo gli stessi che prima erano gialli, o rossi, o verdi, o azzurri?

Pensate di creare coscienza dicendo di non far votare chi non ha studiato ed è povero perché sono ignoranti che votano soltanto il PRI?

Se il Velasco del Chiapas dà ceffoni con la mano, questi uomini di partito danno ceffoni con il loro razzismo mal nascosto.
Guardate che l’unica coscienza che stanno creando questi uomini di partito è che, oltre a essere orgogliosi, sono degli imbecilli.

Cosa si credono?

Che dopo aver ricevuto i loro insulti, le loro menzogne e i loro rimbrotti, la gente di sotto accorrerà a inginocchiarsi dinanzi al loro colore, a votare per loro e a pregarli di salvarla?

Ecco cosa diciamo come zapatisti: ecco la prova che per essere un politico di partito di sopra bisogna essere bavoso o svergognato o criminale, o le tre cose insieme.

-*-

Noi zapatisti diciamo che non bisogna aver paura che il popolo comandi. È la cosa più sana e giudiziosa. Perché il popolo stesso cambierà le cose come ha veramente bisogno. E solo così esisterà un nuovo modo di governare.

Non è che non capiamo che significhi eleggere o elezione. Noi zapatisti abbiamo un altro calendario e un’altra geografia su come fare le elezioni in territorio ribelle, con la resistenza.

I nostri villaggi eleggono già per conto proprio, e non si spendono milionate né si consumano tonnellate di immondizie plastiche, di teloni con le loro fotografie di ladri e criminali.

Certo, abbiamo appena vent’anni di cammino nell’elezione delle nostre autorità autonome, con vera democrazia. Così abbiamo camminato, con la Libertà che conquistiamo e con l’altra Giustizia del popolo organizzato. Dove si coinvolgono migliaia di donne e di uomini per scegliere. Dove tutte e tutti sono d’accordo e si organizzano nella vigilanza affinché compiano l'incarico dei villaggi. Dove i villaggi si organizzano per vedere quali saranno i lavori spettanti alle autorità.

Cioè come il popolo comanda il suo governo..

I villaggi si organizzano in assemblee, dove si iniziano a esprimere pareri e di conseguenza a venire fuori le proposte che vengono studiate, nei loro pro e contro, e si analizza qual è la migliore. E prima di decidere le portano a tutti i villaggi per l’approvazione e tornano in assemblea per la presa di decisione secondo la maggioranza della decisione dei villaggi.

Questa è già la vita zapatista nei villaggi. È già una cultura di verità.

Vi sembra che sia molto lento? Perciò noi diciamo che è in base al nostro calendario.

Vi sembra che avvenga perché siamo popoli originari? Perciò diciamo che è secondo la nostra geografia.

È chiaro che abbiamo commesso molti errori, molti sbagli. Certo che ne faremo altri.

Ma sono i nostri sbagli.

Noi li commettiamo. Noi li paghiamo.

Non come nei partiti nei quali i dirigenti sbagliano e per di più incassano, e quelli di sotto sono quelli che pagano.
Perciò la storia delle elezioni non ci fa né caldo né freddo.

Non facciamo una chiamata né a votare né a non votare. Non ci interessa.

C’è di più: nemmeno ci preoccupa.

Quel che interessa a noi zapatisti è sapere di più su come resistiamo e affrontiamo le molte teste del sistema capitalista che ci sfrutta, ci reprime, ci disprezza e ci deruba.

Perché non è solo da un lato e in un modo che il capitalismo opprime. Opprime se donna. Opprime se impiegato. Opprime se operaio. Opprime se contadino. Opprime se giovane. Opprime se bambina o bambino. Opprime se maestro. Opprime se studente. Opprime se artista. Opprime se pensi. Opprime se sei umano, o pianta, o acqua, o terra, o aria, o animale.

Non importa che lo profumino o lavino, il sistema capitalista “gronda sangue e fango, da tutti i pori, dalla testa ai piedi” (andatevi a vedere chi lo ha scritto e dove).

Pertanto la nostra idea non è di promuovere il voto.

Tanto meno di promuovere l’astensione o il voto in bianco.

Il nostro pensiero non è di fornire ricette su come far fronte al problema del capitalismo.

Non è nemmeno imporre il nostro pensiero ad altri.

Il seminario serve a vedere le varie teste del sistema capitalista, a cercare di capire se ha nuovi metodi per attaccarci o sono gli stessi di prima.

Se ci interessano i pensieri altrui è per vedere se è vero ciò che vediamo arrivare, ovvero una crisi economica tremenda che si congiungerà ad altri mali e farà molti danni a tutte e tutti ovunque, in tutto il mondo.

Perciò se è vero che sta per accadere questo, o che sta già accadendo, bisogna pensare se ha senso agire allo stesso modo di prima.

Pensiamo che dobbiamo obbligarci a pensare, ad analizzare, a riflettere, a criticare, a cercare il nostro proprio passo, il nostro proprio modo, nei nostri luoghi e nei nostri tempi.

Ora chiedo a lei che sta leggendo queste righe: che voti o no, le danneggia pensare come va il mondo nel quale viviamo, analizzarlo, capirlo? Pensare criticamente le impedisce di votare o di astenersi? Le aiuta o no a organizzarsi?

-*-

Finendola sulle elezioni:

Soltanto perché sia ben chiaro e non vi facciate ingannare sul fatto che diciamo ciò che non diciamo.

Noi capiamo che ci sono quelli che credono di poter cambiare il sistema votando alle elezioni.

Noi diciamo che è complicato perché è chi comanda a organizzare le elezioni, a dire chi è candidato, a dire come si vota e quando e dove, a dire chi vince, ad annunciarlo e a dire se tutto si è svolto in maniera legale o no.

Ma va bene, c’è gente che pensa di sì. Va bene, noi non diciamo di no, ma nemmeno di sì.

Quindi, che votino per un colore o scolorito, o non votino, quel che noi diciamo è che bisogna organizzarsi e prendere nelle nostre mani il governo e obbligarlo a obbedire al popolo.

Se lei ha pensato di non votare, noi non diciamo che va bene, e nemmeno diciamo che va male. Le diciamo solo che pensiamo che non basti, che bisogna organizzarsi. E ovviamente che si prepari perché le daranno la colpa delle miserie della sinistra partitica istituzionale.

Se ha pensato di votare e già sa chi voterà, è uguale, non discutiamo se va bene o va male. Quel che le diciamo chiaramente è di prepararsi perché si arrabbierà molto per gli inganni e le frodi che subirà. Perché a ingannare sono esperti quelli che stanno al Potere. Perché quel che succederà è già deciso da quelli di sopra.

Sappiamo anche che ci sono leader che ingannano la gente. Le dicono che ci sono solo due strade per cambiare il sistema: o la lotta elettorale o la lotta armata.

Dicono questo per ignoranza o per assenza di vergogna, o per entrambe.

In primo luogo, essi non stanno lottando per cambiare il sistema, né per prendere il potere, bensì per diventare governo. Non è la stessa cosa. Dicono che una volta al governo faranno cose buone, ma hanno cura di mettere in chiaro che non cambieranno il sistema, bensì che ne rimuoveranno gli aspetti negativi.

Converrebbe che studiassero un po’ e capissero che essere governo non è detenere il Potere.

Si vede come non sappiano nemmeno che rimuovendo gli aspetti negativi del capitalismo non è che non ci sia più capitalismo. E vi dirò perché: perché il capitalismo è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dei molti da parte di pochi. Se ci aggiungete anche le donne, la faccenda non cambia. Se ci aggiungete anche gli otroas, la faccenda non cambia. Continua ad essere il sistema nel quale unoas si arricchiscono a spese del lavoro di otroas. E sono pochi gli otroas di sopra, e sono molti gli otroas di sotto. Se gli affiliati ai partiti dicono che ciò va bene e che bisogna solo stare attenti che non passino il segno, che lo dicano pure.

Ma per arrivare a essere governo non ci sono solo due vie come dicono loro (la via armata e la via elettorale). Dimenticano che il governo si può anche comprare (o hanno già dimenticato com’è arrivato al governo Peña Nieto?). E non solo questo, forse non lo sanno ma si può comandare senza essere governo.

Se questa gente dice che si può fare solo con le armi o con le elezioni, l’unica cosa che dicono è che non conoscono la storia, che non studiano bene, che non hanno immaginazione, che sono degli svergognati.

Basterebbe che guardassero un po’ verso il basso. Ma ormai gli si è torto il collo dal tanto guardare in alto.

Perciò noi zapatisti non ci stanchiamo di dire: organizzatevi, organizziamoci, ciascuno nei suoi luoghi, lottiamo per organizzarci, lavoriamo per organizzarci, pensiamo a iniziare a organizzarci e incontriamoci per unire le nostre organizzazioni per un Mondo in cui i popoli comandano e il governo obbedisce.

Riassumendo: come abbiamo detto prima, come diciamo ora: che tu voti o no, organizzati.

E quindi noi zapatisti pensiamo che dobbiamo avere un pensiero adeguato per organizzarsi. Cioè c'è bisogno di teoria, il pensiero critico.

Col pensiero critico analizziamo le modalità del nemico, di chi ci opprime, ci sfrutta, ci reprime, ci disprezza, ci deruba.

Ma anche, col pensiero critico vediamo com'è il nostro percorso, come sono i nostri passi.

Perciò stiamo chiamando tutta la Sexta a fare riunioni di pensiero, di analisi, di teoria, di come vedete il vostro mondo, la vostra lotta, la vostra storia.

Vi chiamiamo a realizzare i vostri semenzai e a condividere ciò che lì seminerete.

-*-

Noi come zapatisti continueremo ad autogovernarci secondo il principio che il popolo comanda e il governo obbedisce.

Come dicono i compagni zapatisti: Hay lum tujbil vitil ayotik[1]. Vuol dire: è molto bello come siamo.

Un’altra: Nunca ya kikitaybajtic bitilon zapatista. Vuol dire: non smetteremo mai di essere zapatisti.

Un’altra ancora: Jatoj kalal yax chamon te yax voon sok viil zapatista. Vuol dire: Fino a quando morirò il mio nome sarà zapatista.


Dalle montagne del sudest messicano.

A nome di tutto l’EZLN, degli uomini, delle donne, dei bambini e degli anziani
dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.

Subcomandante Insurgente Moisés.

Messico, aprile-maggio 2015.




[1] Questa e le altre frasi sono in lingua tzeltal, la lingua madre del Subcomandante Moisès [N.d.T.].

tratto da "Il pensiero critico di fronte all'idra capitalista" 

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!