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lunedì 17 aprile 2017

Turchia - Erdogan “vince” il referendum, ma ha metà Turchia contro

Nessun plebiscito per il Sultano. Paese diviso. Il No avanti nelle grandi città e in Kurdistan. Denunce dei partiti di opposizione e proteste contro la sede della Commissione elettorale generale.
Poco più di un punto percentuale separa il risultato finale dell'Evet (sì) da quello dell'Hayir (no). 51,18% contro 48,82%. 24 milioni e 300mila voti contro 23 milioni e 200mila. Nel voto estero, invece, il sì raggiunge quasi il 60%, con poco più di 250mila voti di distacco. Per la prima volta da quando l'AKP è al potere, però, Erdogan perde l'appoggio delle grandi città. Ad Istanbul, Ankara e Izmir vince il No. E la stessa cosa accade in Kurdistan e sulla costa.
Il voto referendario mostra un paese spaccato, in cui il consenso del Sultano continua ad erodersi. Nonostante le operazioni militari, le minacce, gli arresti, il controllo quasi totale dei mezzi di informazione, i brogli, la vittoria nel voto sulla riforma più importante per i progetti autoritari di Erdogan è stata risicatissima.
La riforma accentra ulteriormente enormi quote di potere nelle mani del presidente. Questo sarà eletto direttamente dal popolo e acquisirà tutti i poteri esecutivi, dal momento che la figura del Primo Ministro viene eliminata. Potrà nominare e far dimettere gli esponenti del governo e sciogliere il Parlamento, nonché sospendere o limitare diritti civili e libertà fondamentali durante lo stato d'emergenza. Anche buona parte del potere legislativo viene consegnato nelle mani del presidente, che potrà emanare decreti legge senza alcun voto parlamentare. E anche rispetto al potere giudiziario, il presidente giocherà il ruolo più importante, nominando il Consiglio superiore della magistratura e agendo, anche formalmente, in una quasi completa immunità.

martedì 6 ottobre 2015

Arabia Saudita - Ali al Nimr, 20 anni, condannato a decapitazione, crocifissione e putrefazione del corpo


"E’ una vicenda che ho seguito con apprensione e dolore, la comunità internazionale deve fare di tutto per ottenere la liberazione dell’attivista saudita. Mi rendo conto che spesso ci sono interessi in gioco, ma la promozione dei diritti umani deve essere sempre anteposta a tutto".

Lina Ben Mhenni, blogger tunisina



Ali al-Nimr ha vent'anni.
E’ stato condannato alla decapitazione, crocifissione e putrefazione del corpo.

I giudici di appello della Corte penale speciale e della Corte suprema dell’Arabia Saudita hanno confermato la sentenza di condanna a morte emessa dal tribunale penale speciale di Gedda per la “partecipazione a manifestazioni antigovernative” a Qatif, cittadina nella parte orientale del regno, quando Ali aveva appena diciassette anni.

La condanna è frutto di una confessione estorta al ragazzo sotto tortura.


Ali è nipote di un eminente religioso sciita indipendente e oppositore del regime dell’Arabia Saudita, Sheikh Nimr Baqir al-Nimr, arrestato l’8 luglio del 2012 e anch'egli condannato a morte, il 15 ottobre del 2014.


Può essere messo a morte appena il re Salman ratifica la condanna.

In tutto il mondo ci si sta mobilitando per chiedere che questa ennesima barbarie, in un paese che viola sistematicamente i diritti umani, la libertà delle donne, venga bloccata.
Ma si sa i capitali ingenti dell’Arabia, accumulati sui profitti dell’oro nero ed oggi ramificati in tutti i settori della finanza, ne fanno un partner intoccabile. Per questo nessun paese si sta muovendo per stigmatizare, anzi neppure vagamente criticare, la violenza sistemica del regime saudita.


Anzi, con macabro tempismo intanto le Nazioni Unite hanno nominato l’ambasciatore saudita, Faisal bin Hassan Trad, a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu nel 2016,

Amnesty International ha lanciato un appello che è possibile firmare, per  rompere il silenzio e chiedere l’annullamento della sentenza.

Segui le mobilitazioni in twitter

Stiamo parlando di un paese che detiene il record mondiale delle esecuzioni capitali, che tranquillamente è considerato un alleato dell’occidente e non solo.

Da Amnesty International
LA PENA DI MORTE IN ARABIA SAUDITA

L’Arabia Saudita è tra i paesi che eseguono il più alto numero di sentenze: dal 1985 al 2005 sono state messe a morte oltre 2200 persone; da gennaio ad agosto 2015, almeno 130 esecuzioni.
Violando la Convenzione sui diritti dell’infanzia e il diritto internazionale, ha messo a morte persone per reati commessi quando erano minorenni.
Spesso i processi per reati capitali sono tenuti in segreto e sono sommari e iniqui, senza l’assistenza e la rappresentanza legale durante le varie fasi della detenzione e del processo. Gli imputati possono essere condannati sulla base di confessioni estorte con torture e maltrattamenti, coercizione e raggiri.

Le tensioni tra la comunità sciita e le autorità saudite sono cresciute dal 2011, quando sono cresciute le manifestazioni contro gli arresti e le vessazioni di sciiti che svolgevano preghiere collettive e violavano il divieto di costruire moschee sciite.
Le autorità saudite hanno risposto con la repressione di chi era sospettato di partecipare o sostenere o esprimere opinioni critiche verso lo stato. I manifestanti sono stati trattenuti senza accusa e in isolamento per giorni o settimane e sono stati segnalati maltrattamenti e torture.
Dal 2011, quasi 20 persone collegate alle proteste sono state uccise e centinaia incarcerate.

giovedì 16 luglio 2015

Iran - I diritti negati ai curdi in Iran

I diritti negati ai curdi in Iran
“Ci sono dodici milioni di curdi in Iran che sono costretti a vivere in condizioni molto difficili, sia per quanto riguarda l’aspetto economico che quello dei diritti umani. Sono impegnati solo in mestieri umili, quelli che riescono a trovare un impiego. Molti lavorano la terra e sono impiegati nelle campagne ma pensare di fare carriera o occupare posti di rilievo è impensabile. 

Il PJAK (Free Life Party of Kurdistan) è l’unica forza politica che è impegnata nel difendere i diritti dei curdi, ma naturalmente è un partito illegale. La Repubblica Islamica giudica tutti coloro che portano avanti le vertenze dei curdi come dei traditori e questo implica che molti attivisti politici siano stati rinchiusi nelle carcere e sottoposti a torture. Chi viene giudicato un traditore viene giustiziato senza un giusto processo. Ci sono circa 1260 detenuti politici curdi in Iran. 

Lo stesso rischio lo corrono anche tutti coloro che osano parlare di quest’argomento e mettere in discussione l’autorità. Ci sono anche molti giornalisti rinchiusi nelle galere iraniane anche solo perché hanno osato parlare di diritti umani negati. E non sono tutti necessariamente di origine curda. Chiunque anche solo osi mettere al centro certe questioni rischia non solo la reclusione ma addirittura la vita”. 

A pronunciare queste parole è Shirzad Kamangar, tra gli uomini di spicco del partito curdo iraniano. Costretto all’esilio, vive la maggior parte del suo tempo a Bruxelles dove lo abbiamo incontrato.

Ma com’è la situazione di chi sceglie di lottare per i diritti in Iran?
“Chi ha scelto di fare politica è costretto a uscire dal Paese e questo implica l’impossibilità di rientrare perché messo piede sul suolo iraniano la conseguenza immediata sarebbe l’arresto. Il problema poi si presenta per i familiari che rimangono perché il governo impossibilitato ad arrestare chi vive all’estero e quindi se la prende con loro. Io sono stato in prigione diverse volte e dopo l’ultima volta ho scelto di abbandonare la mia terra e le persone a me care. Non potere rientrare è ovvio che è un dolore. Ma la cosa più difficile da accettare sono le ritorsione che subiscono i cari dei fuoriusciti. Mio fratello ad esempio era un insegnante di scuola elementare ed è stato arrestato e giustiziato dopo un processo sommario solo perché era mio fratello. Non era certo un attivista politico, eppure ha pagato con la vita il solo fatto di essere mio fratello”.


Che ruolo ha a tuo parere l’Iran con Is?
“Il ruolo dell’Iran nella questione Is è quello di supporto al Califfato. Chiaro che non lo dichiara apertamente ma è un fatto. Un po’ come fa la Turchia. Nessuno lo dice chiaramente ma la questione è per noi molto chiara. E non si tratta solo di una questione ideologica, ma anche pratica che però nessuno ha voglia di affrontare. Mi riferisco alla comunità internazionale. Il problema è anche che è molto complicato fare uscire notizie dall’Iran, impossibile poi anche solo fare un lavoro di inchiesta o di denuncia sulla questione. Credete sia possibile anche per un giornalista straniero, occidentale, entrare in Iran e raccogliere testimonianze sulla condizione dei curdi o sui rapporti di questa grande potenza e Daesh? 

Chiunque anche solo volesse provarci, sarebbe immediatamente tacciato di attività spionistica. La conseguenza immediata sarebbe la carcerazione.”

Che prospettive ci sono secondo te per il futuro? “Quello che pensiamo come comunità curda intesa nella sua quasi totalità è che è sui diritti che dobbiamo concentrare la nostra battaglia. Per questo siamo uniti alla lotta in Rojava ma anche sostegno al partito turco curdo HDP che è una bella spina nel fianco di Erdogan. Diversa è la questione nel Kurdistan iracheno ma quelle sono problematiche interne alla nostra comunità e di più facile soluzione. Oggi dobbiamo essere tutti compatti per fare si che i curdi sparsi nei vari territori ottengano finalmente il rispetto non solo dei diritti umani ma anche sul piano della libertà di espressione. Senza il raggiungimento di questi elementi, il popolo curdo non sarà mai libero, che si trovi a vivere in Iran, in Turchia, in quel che rimane della Siria o in Iraq”.


di Ivan Compasso, Articolo21

venerdì 31 gennaio 2014

Kurdistan - Lettera di Öcalan al Popolo Armeno

Il giornale armeno Agos ha pubblicato il testo integrale della lettera che il leader del popolo kurdo Abdullah Ocalan ha recentemente scritto al popolo armeno.

Öcalan ha richiamato l’attenzione sull'interruzione delle relazioni sociali negli ultimi tre secoli tra gli antichi popoli della Mesopotamia e dell’Anatolia, e ha osservato che queste terre si sono trasformate in un cimitero di popoli e di culture a causa del veleno sparso dalla modernità capitalista e dagli stati nazionali con i loro progetti di creazione di stati monolitici, per cui predispongono una sotto struttura ideologica per un disastro e per la distruzione di popoli così come di decine di lingue e culture.
Öcalan ha osservato che le guerre e gli scontri nel corso della storia hanno raggiunto il massimo livello oggi più che mai, con lo scopo di distruggere l’umanità e la natura.

domenica 22 dicembre 2013

Afghanistan - Il presidente Karzai pretende rispetto dagli USA

Il ritiro militare annunciato rilancia le ostilità con il Pakistan

di Immanuel Wallerstein
Il presidente dell’Afghanistan Hamid Karzai non è preso molto sul serio negli Stati Uniti, né dal governo, né dai media, né dal pubblico in generale. Un buon elemento di prova: il 10 dicembre ha concesso una lunga intervista a Le Monde che il giornale ha pubblicato per intero, sia nell’originale in inglese sia in traduzione in francese, e tale intervista molto dettagliata si è meritata soltanto una citazione (di meno di una frase) sul New York Times.
La cosa è tanto più degna di nota per il fatto che Karzai fa delle affermazioni molto forti, parecchio in contrasto con ciò che si legge sulla stampa statunitense. E’ come se tutti ritenessero che le affermazioni di Karzai siano insensate o testarde nell'errore o incoerenti o semplici tattiche negoziali. Nessuno sembra prendere in considerazione la possibilità che le dichiarazioni del governo statunitense possano essere insensate o testarde nell'errore o incoerenti o semplici tattiche negoziali.
Proprio al minimo, gli statunitensi (e anche tutti gli altri) dovrebbero leggere con attenzione ciò che Karzai sta dicendo. Egli inizia l’intervista insistendo di aver sostenuto negli ultimi otto anni che “la guerra al terrore non può e non deve essere combattuta nei villaggi afgani, nelle case afgane. Se una guerra al terrore è in corso, deve essere portata nei rifugi dei terroristi [presumibilmente in Pakistan], dove sono addestrati e nutriti”.

lunedì 2 dicembre 2013

Cina, Giappone, Usa - Disputa finale?

 di Angela Pascucci

Mai risolta, la disputa fra Cina e Giappone sulle isole Diaoyu/Senkako nel mar della Cina orientale si riaccende periodicamente, ogni volta più infiammata a causa delle crescenti rigidità e intransigenze dei contendenti. Stavolta il gong del nuovo round è stato suonato dalla Cina quando, il 23 novembre scorso, ha annunciato l’istituzione di una nuova zona di difesa del proprio spazio aereo (Adiz, Air Defence Identification Zone), che include le isole contese e si sovrappone alla zona di controllo giapponese e, sia pur in misura minore, quella sud coreana. Con questa decisione Pechino impone a chiunque sorvoli l’area di identificarsi e fornire i propri piani di volo all’aviazione cinese, che in caso di inadempienza attuerà “misure difensive di emergenza”.

Ne è seguita una serie di scaramucce a jet sfoderati, aperta dagli indimenticabili B52 americani, due esemplari dei quali, decollati da Guam, sono stati spediti subito da Washington con un duplice scopo: far capire da che parte della contesa si colloca, in nome dei trattati di sicurezza sottoscritti con Tokyo, e sfidare la reazione cinese, che in questo caso si è limitata a “sorvegliare” l’azione (dichiarando che il sorvolo americano è avvenuto ai limiti dell’area) . 

Attraverso la breccia aperta dagli Usa (che formalmente hanno dichiarato trattarsi di “regolari esercizi” da loro normalmente condotti nell’area) si sono precipitati poi i jet militari giapponesi e anche quelli sud coreani. La Cina ha deciso in tutti questi casi di far decollare a mo’ di controllo un paio di velivoli della propria contraerea ma non ha ancora agito per imporre il rispetto delle nuove regole di identificazione, platealmente e volontariamente violate (anche se gli Usa hanno consigliato alle loro compagnie aeree civili di ottemperare alle richieste cinesi). 

mercoledì 13 novembre 2013

Cambogia - Lavoratori si scontrano con la polizia nelle proteste contro lo sfruttamento delle multinazionali

Come in Bangladesh chiedono aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro

Alcuni mesi fa il crollo della fabbrica tessile a Dacca con più di 1000 morti, apriva uno squarcio sulle condizioni di super sfruttamento della filiera delle compagnie multinazionali del settore.
Dopo convegni, carte d'intenti firmate in pompa magna, codici etici per le condizioni di lavoro, le proteste in Bangladesh e Cambogia proprio di questi giorni dimostrano come si cerchi di preservare i profitti garantiti attraverso salari da fame e condizioni inumane. I nomi dei brand, nell'infernale ragnatela di appalti e commesse sono sempre gli stessi. Con una mano si firma il codice etico con l'altra si sfruttano migliaia di uomini e donne.
"People before profits" è stato uno degli slogan che hanno accompagnato le proteste pochi mesi fa davanti a company come la Benetton ed altre, che dietro i marchi luccicanti o addirittura economici come la H&M, sono il volto ipocrita del profitto, come denunciano le donne e gli uomini che hanno manifestato in questi giorni tra il Bangladesh e la Cambogia. 
Video su Phnom Penh
Manifestazioni, scontri a Phnom Penh nella giornata di ieri durante le proteste dei lavoratori della SL Garment Processing Ltd., che fornisce famosi marchi come Gal e H&M. Il corteo che si dirigeva verso la residenza del premier Hun Sen è stato attaccato dalla polizia e negli  attacchi è morta una donna ferita da colpi d'arma da fuoco.
La protesta, che dura da alcuni mesi,  ha al centro le condizioni di lavoro imposte nel paese, come in Bangladesh, delle company del settore tessile. I lavoratori che sono scesi in piazza fanno parte di una rete di oltre 500 fabbriche che esportano negli Usa e in Europa.
Le condizioni di lavoro in cui si trovano migliaia di lavoratrici e lavoratori sono quelle salite alla cronaca con il crollo della fabbrica tessile a Dacca: pochi soldi per un lavoro svolto in condizioni nocive.
Una situazione, che a parte le solite dichiarazioni d'intenti quando lo scandalo si fa troppo evidente, affonda le sue radici nel circuito della produzione globale delle grandi aziende, che non esitano a sfruttare in nome dei profitti.
In Cambogia la protesta nasce dalla richiesta di aumenti salariali (sempre se si può definire salario una quantità di denaro tra i 40 e gli 80 dollari al mese) e di migliori condizioni lavorative.
Le stesse richieste che hanno portato in piazza l'altro ieri altri lavoratori e lavoratrici in Bangladesh in particolare a Savar e Ashulia, vicino alla capitale, chiedendo di avere aumenti per arrivare almeno a 100 dollari al mese. Anche in questo caso le manifestazioni sono state attaccate dalla polizia con un bilancio di decine di feriti.

mercoledì 6 novembre 2013

Russia - Nadia, attivista delle Pussy Riot trasferita in Siberia

Adesso si sa dove è detenuta Nadezhda Tolokonnikova, attivista delle Pussy Riot condannate a due anni di prigione per la performance anti-Putin: in un campo di detenzione in Siberia, nella zona di Krasnoiarsk che si trova a più di 4500 chilometri da Mosca.
A rendere noto il luogo di detenzione è stato il marito, che nei giorni scorsi aveva denunciato che Nadia, trasferita dal campo in cui aveva fatto lo sciopero della fame contro le pesanti condizioni detentive,  era irrintracciabile.
Il trasferimento in Siberia è chiaramente un atto punitivo che non fa che confermare l'accanimento delle autorità del governo russo.
Il marito della giovane donna ha dichiarato che Nadia "è stata trasferita lontano come punizione per l'eco che ha avuto la sua lettera", riferendosi al racconto dei soprusi totali che vengono effettuati sulle detenute nel campo in Mordovia, dove era detenuta. 
Nadia aveva infatti denunciato le pesanti detenzioni, da gulag, per le prigioniere e le violenze dei secondini ed aveva iniziato uno sciopero della fame di protesta.

martedì 1 ottobre 2013

Kurdistan - Il PKK ha tenuto l’11° congresso

Il PKK ha tenuto l’11° congresso
Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha tenuto il suo 11° congresso nell’area di difesa di Medya controllata dalla guerriglia dal 5 al 13 settembre.
Al “Congresso finale e della vittoria” per la liberazione del leader curdo Abdullah Öcalan e del popolo curdo hanno partecipato 125 delegati dall’estero e dalle quattro parti del Kurdistan.
Il Comitato Centrale del PKK ha rilasciato una dichiarazione sui risultati degli otto giorni di congresso che si è svolto con un anno di ritardo a causa del contesto dei pesanti scontri nel 2012.
Il Comitato del PKK ha detto che il congresso si è occupato della recente situazione politica, ideologica e organizzativa nel mondo, nel Medio Oriente, in Turchia e nel Kurdistan e ha prodotto approfonditi dibattiti e decisioni significative, così come modifiche legislative e programmatiche.
Secondo il PKK la modernità capitalista dominante ha causato gravi problemi sociali a livello mondiale nel primo quarto del 21° secolo perché ha fallito nel proporre soluzioni a questi problemi sulla base della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza.

lunedì 3 giugno 2013

Turchia - Lettera da Istanbul: dalla Turchia al mondo


Si protesta per fermare la demolizione di qualcosa di più grande di un parco: il diritto a vivere in democrazia. La città si stringe solidale contro il governo.

di Sumandef Hakkinda*

Ai miei amici che vivono fuori dalla Turchia: scrivo per farvi sapere cosa sta succedendo a Istanbul da cinque giorni. Personalmente sento di dover scrivere perché la maggior parte della stampa è stata messa sotto silenzio dal governo e il passaparola e internet sono i soli mezzi che ci restano per raccontare e chiedere sostegno. Quattro giorni fa un gruppo di persone non appartenenti a nessuna specifica organizzazione o ideologia si sono ritrovate nel parco Gezi di Istanbul. Tra loro c'erano molti miei amici e miei studenti. Il loro obiettivo era semplice: evitare la demolizione del parco per la costruzione di un altro centro commerciale nel centro della città. Ci sono tantissimi centri commerciali a Istanbul, almeno uno in ogni quartiere. Il taglio degli alberi sarebbe dovuto cominciare giovedì mattina. La gente è andata al parco con le coperte, i libri e i bambini. Hanno messo su delle tende e passato la notte sotto gli alberi. La mattina presto quando i bulldozer hanno iniziato a radere al suolo alberi secolari, la gente si e' messa di mezzo per fermare l'operazione.

Non hanno fatto altro che restare in piedi di fronte alle macchine.Nessun giornale né emittente televisiva era lì per raccontare la protesta. Un blackout informativo totale. Ma la polizia è attivata con i cannoni d'acqua e lo spray al peperoncino. Hanno spinto la folla fuori dal parco.

Nel pomeriggio il numero di manifestanti si è moltiplicato. Così anche il numero di poliziotti, mentre il governo locale di Istanbul chiudeva tutte le vie d'accesso a piazza Taksim, dove si trova il parco Gezi. La metro è stata chiusa, i treni cancellati, le strade bloccate. Ma sempre più gente ha raggiunto a piedi il centro della città. Sono arrivati da tutta Istanbul. Sono giunti da diversi background, da diverse ideologie, da diverse religioni. Si sono ritrovati per fermare la demolizione di qualcosa di più grande di un parco: il diritto a vivere dignitosamente come cittadini di questo Paese.

Hanno marciato. La polizia li ha respinti con spray al peperoncino e gas lacrimogeni e ha guidato i tank contro la folla che offriva ai poliziotti cibo. Due giovani sono stati colpiti dai tank e sono stati uccisi. Un'altra giovane donna, una mia amica, è stata colpita alla testa da uno dei candelotti lacrimogeni. La polizia li lanciava in mezzo alla folla. Dopo tre ore di operazione chirurgica, è ancora in terapia intensiva in condizioni critiche. Mentre scrivo, non so ancora se ce la farà. Questo post è per lei.

Nessun agenda nascosta
Queste persone sono miei amici. Sono i miei studenti, i miei familiari.Non hanno "un'agenda nascosta", come dice lo Stato. La loro agenda è là fuori, è chiara. L'intero Paese viene venduto alle corporazioni dal governo, per la costruzione di centri commerciali, condominii di lusso, autostrade, dighe e impianti nucleari. Il governo cerca (e quando è necessario, crea) ogni scusa per attaccare la Siria contro la volontà del suo popolo.

E, ancora più importante, il controllo del governo sulle vite personali della sua gente è diventato insopportabile. Lo Stato, dietro la sua agenda conservatrice, ha approvato molte leggi e regolamenti sull'aborto, il parto cesareo, la vendita e l'utilizzo di alcol e anche il colore del rossetto delle hostess delle compagnie aeree.

La gente che sta marciando verso il centro di Istanbul chiede il diritto a vivere liberamente e a ottenere giustizia, protezione e rispetto dallo Stato. Chiede di essere coinvolta nel processo decisionale della città in cui vive. Quello che invece ha ricevuto è violenza e un enorme numero di gas lacrimogeni lanciati dritti in faccia. Tre persone hanno perso la vista.

Eppure continuano a marciare. Centinaia di migliaia si stanno unendo. Duemila persone sono passate sul ponte del Bosforo a piedi per sostenere la gente di Taksim. Nessun giornale né tv era lì a raccontare cosa accadeva. Erano occupati con le notizie su Miss Turchia e "il gatto più strano del mondo". La polizia ha continuato con la repressione, spruzzando spray al peperoncino tanto da uccidere cani e gatti randagi.

Scuole, ospedali e anche hotel a cinque stelle intorno a piazza Taksim hanno aperto le porte ai feriti. I dottori hanno riempito le classi e le camere di albergo per dare primo soccorso. Alcuni poliziotti si sono rifiutati di spruzzare lo spray e lanciare lacrimogeni contro persone innocenti e hanno smesso di lavorare. Intorno alla piazza hanno posto dei disturbatori per impedire la connessione internet e i network 3G sono stati bloccati. I residenti e i negozi della zona hanno dato alla gente in strada accesso alle loro reti wireless, i ristoranti hanno offerto cibo e bevande gratis.

La gente di Ankara e Izmir si è ritrovata nelle strade per sostenere la resistenza di Istanbul. I media mainstream continuano a raccontare di Miss Turchia e del "gatto più strano del mondo".

*** 

Scrivo questa lettera così che possiate sapere cosa succede a Istanbul. I mass media non ve lo diranno. Almeno non nel mio Paese. Per favore postate più articoli possibile su internet e fatelo sapere al mondo.

Mentre pubblicavo articoli che spiegavano quanto sta avvenendo ad Istanbul sulla mia pagina Facebook la scorsa notte, qualcuno mi ha chiesto: "Cosa speri di ottenere lamentandoti del tuo Paese con gli stranieri?". Questa lettera è la mia risposta.

Con il cosiddetto "lamentarmi" del mio Paese, io spero di ottenere:

Libertà di parola e espressione,

Rispetto per i diritti umani,

Controllo sulle decisione che riguardano il mio corpo,

Diritto a radunarsi legalmente in qualsiasi parte della città senza essere considerato un terrorista.

Ma soprattutto dicendolo al mondo, ai miei amici che vivono nel resto del globo, spero di aprire i loro occhi, di aver sostegno e aiuto. 

*Originariamente pubblicato sul blog defnesumanblogs.com 

lunedì 1 ottobre 2012

India - 50 milioni in piazza contro l’invasione degli Ipermercati


di Davide Ettorre
Cinquanta milioni di indiani sono scesi in strada per dimostrare la loro contrarietà alla proposta di riforma del governo che, di fatto, aprirebbe il settore della grande distribuzione organizzata alle multinazionali straniere.
Si tratta di una questione particolarmente complessa, da tempo oggetto di aspre polemiche nella nazione asiatica. 
La riforma del commercio era già stata avanzata lo scorso anno, nel dicembre 2011, ma era poi stata bloccata dai partiti di opposizione e dalle proteste popolari.
La proposta prevede che le grandi multinazionali possano acquisire fino al 49% dei principali centri di distribuzione e che possano, quindi, vendere direttamente ai consumatori indiani, cambiando radicalmente il sistema attuale dove tali centri erano in mano ai piccoli commercianti al dettaglio.

lunedì 3 settembre 2012

Internet - Arrestato in Cambogia uno dei fondatori del sito Pirate Bay

Gottfrid Svartholm è stato fermato in esecuzione di un mandato internazionale emesso dalla magistratura svedese. Deve scontare un anno di carcere e pagare 4,4 milioni di dollari di risarcimento per violazioni delle leggi sul diritto d'autore
Il co-fondatore del sito torrent Pirate Bay, lo svedese Gottfrid Svartholm Warg, ideatore del software tracker Hypercube, è stato arrestato in Cambogia. 
Warg è stato arrestato nella capitale Phnom Penh, in esecuzione di un mandato internazionale emesso a seguito di una condanna in Svezia a un anno di carcere nel 2009 per violazione delle leggi sul copyright.
In quell'occasione i giudici stabilirono anche che Warg deve pagare l'equivalente in corone svedesi di 4,4 milioni di dollari di risarcimenti. Il suo ex avvocato, Ola Salomonsson, ha riferito al quotidiano Aftonbladet di essere a conoscenza dell'arresto.
Il ministro degli esteri svedese ha invece confermato soltanto che "un uomo sulla trentina" è stato arrestato a Phnom Penh. Pirate Bay è il sito svedese che consente agli utenti di condividere file, inclusi quelli multimediali.
Definito "uno dei grandi mediatori al mondo di download illegali" e un'avanguardia dei movimenti anti-copyright, Pirate Bay è stato fondato nel 2003 e conta oltre 35 milioni di utenti in tutto il mondo ai quali consente di sfruttare la tecnologia "BitTorrent" per scaricare film, musica e giochi.
Nel 2010, gli altri due cofondatori del sito, Fredrik Neij et Peter Sunde, erano stati condannati rispettivamente a dieci e otto mesi di carcere e a un risarcimento di 4,6 milioni di euro.
Neij ha annunciato di recente un ricorso alla Corte europea di giustizia contro la decisione della corte suprema svedese di riesaminare il caso.
Quattro modi per accedere a 'The pirate bay' dall'italia:

venerdì 24 agosto 2012

Tajikistan - La guerra nascosta sotto il Tetto del Mondo


di Riccardo Bottazzo
Dushanbe - Nel leggere i comunicati diffusi dal ministero della guerra tajiko, nel Pamir sarebbero in atto solo delle “scaramucce tra l’esercito regolare e bande di trafficanti di droga”. Sempre secondo questi comunicati, che la maggior parte dei media occidentali ha ripreso pari pari e senza nessuna verifica - a dimostrazione dell’interesse praticamente nullo che tanto l’Europa che gli Usa nutrono per questo angolo di mondo -, si sarebbero registrati non più di venti morti dall’inizio di agosto ad oggi, equamente divisi tra militari e narcotrafficanti.
Fatto sta che queste cosiddette “scaramucce” sono tuttora in atto e, anzi, si stanno intensificando, tanto che l’ambasciata tedesca di Dushanbe si è assunta l’incarico di radunare tutti gli europei presenti nel sud del Paese e riportarli a casa. Anche l’ingresso nel Paese è diventato più difficile. Ottenere un visto turistico o anche lavorativo per il Tajikistan, lo so per esperienza diretta, è oggi una impresa più difficile del consueto. E anche quando riesci ad ottenere il sospirato visa (non di rado allungando qualche mazzetta da un centinaio di dollari ai funzionari dell’ambasciata), un timbro supplementare mette in chiaro che il tuo permesso di ingresso “non vale per il Pamir”.

giovedì 19 luglio 2012

Giappone - Non si crede alla grande menzogna


nonuke
Centinaia di migliaia in piazza contro le centrali. Non succedeva dagli anni '70. E venerdì si replica: girotondo attorno al Parlamento.
Centomila? Duecentomila? Poco importa. Una cosa è certa. Erano tanti, tantissimi al Parco Yoyogi, lunedì scorso. Talmente tanti che i giovani, numerosissimi, sembravano un po' spaesati e forse intimoriti, mentre i "vecchietti", anch'essi numerosi, non hanno potuto evitare, non senza nostalgia e un po' d'orgoglio, di ricordare i loro "anni formidabili", quelli del "movimento" nipponico, protagonista di tante battaglie e di tante, tragiche sconfitte.
Talmente tanti che stavolta se n'è accorta anche la NHK, la radiotelevisione di stato che ha sin qui ignorato la protesta antinucleare e che da decenni, assieme agli altri grandi network commerciali, primo tra tutti il gruppo Yomiuri-NTV, ha appoggiato, diffuso e amplificato la "grande menzogna", come oramai molti giapponesi la chiamano, nucleare. Per carità, mica una diretta, come l'evento forse meritava e come ha invece meritevolmente assicurato (e anche questa è una novità assoluta) un consorzio di web-tv indipendenti (tre milioni di accessi, in tre ore di trasmissione).La Nhk - e immaginiamo dopo quante ore di riunioni e... interferenze - si è limitata a tre minuti nel Tg della sera, senza riprese dall'alto (nonostante il suo elicottero abbia continuato a volare a bassa quota, disturbando la manifestazione) e senza citare il nutrito, inedito parterre. Il Nobel Kenzaburo Oe, il musicista Ryuchi Sakamoto, il giornalista e scrittore Satoshi Kamata e tanti politici. Ma quest'ultimi non sul palco.
Il movimento, che così a fatica (e con tensioni interne tutt'ora molto forti) è riuscito a darsi una sorta di coordinamento nazionale, non vuole essere dirottato né strumentalizzato da vecchi e nuovi voltagabbana. Chi, tra i politici (soprattutto giovani e rigorosamente bipartisan) vuole partecipare è benvenuto. Ma niente pubblicità personale, sul palco non si sale.Sul palco, perfettamente a suo agio nonostante l'età e gli acciacchi, c'è Kenzaburo Oe, una delle "anomalie" del Giappone, vecchia spina nel fianco dell'establishment.

venerdì 15 giugno 2012

Cina - Di contadini e di rivoluzioni


di Gabriele Battaglia
Tutto nasce da Wukan, il villaggio del Guangdong dove nei mesi scorsi l’intera comunità ha lottato e vinto contro la sacra alleanza di funzionari locali e palazzinari che volevano espropriarla dei terreni. Una storia simile a mille altre, in un Paese dove gli “incidenti” – rivolte, jacquerie, repressione e vittime – sono ormai quasi 100mila ogni anno. Ma a Wukan, la popolazione è riuscita a scongiurare la repressione dura e pura, dimostrando che la propria lotta non intendeva destabilizzare il Paese, attaccare il partito o la struttura fondamentale dello Stato. Era una protesta radicale, irriducibile, ma non “politica”, bensì molto pratica.
“Gli appelli degli abitanti del villaggio di Wukan nascono dalla preoccupazione per il proprio sostentamento, non da qualche forma di astio contro il partito o il sistema politico cinese”, scrive Ou Ning – poliedrico “lavoratore della cultura” (come ama definirsi) basato a Pechino ma originario di un piccolo villaggio proprio del Guangdong – in un articolo che vede nel caso Wukan una pietra miliare: qui, infatti, si assiste secondo lui all’ingresso sulla scena di nuovi, inediti, protagonisti e alla dimostrazione che l’autogoverno delle comunità rurali non è necessariamente sinonimo di caos.
Abbiamo già incontrato e intervistato Ou, per Inside Beijing, un progetto di E il Mensile sulla capitale cinese. Ma oggi la sua mente sembra lontana dalla metropoli: vaga nelle campagne, che da un po’ di tempo sono tornate al centro della sua riflessione politica, prima ancora che culturale.
“Spero che più gente lasci la città per tornare in campagna, in modo che si crei un rapporto più intimo tra queste due realtà”, ci confessa.

domenica 6 maggio 2012

Giappone - Chiude l'ultimo reattore nucleare

Da oggi il Giappone resta senza energia nucleare. Con la chiusura dell’ultimo dei 50 reattori nucleari in funzione, il Giappone torna a essere un paese denuclearizzato per la prima volta dal 1970 quando a Tokai entrò in funzione il primo reattore nipponico in grado di riproduttore 1000 mW di energia elettrica.
Il fabbisogno energetico giapponese è coperto per oltre un terzo dal nucleare. Per questo, la chiusura di tutte le centrali, dovuta anche alla crisi di Fukushima, fa temere un black out energetico per questa estate, quando ci sarà il picco di consumi legati al caldo.
Dopo il disastro di Fukushima il 70% dei giapponesi si è detto contro il nucleare, a differenza delle autorità e delle forti lobby industriali che premono per l’atomo. Nei prossimi mesi Tokyo annuncerà una nuova strategia energetica, puntando alle energie rinnovabili, finora ferme al 9% della produzione totale.
Se il cambio di energia non trova favorevoli le industrie e la classe politica, non sono dello stesso avviso gli attivisti. “Alcuni politici e qualche esperto di energia nucleare – spiega Tatsuya Yoshioda, uno dei leader dell’Ong Peace Boat – dirà che senza energia atomica la nostra vita non può esistere, ma non è vero. La nostra vita può andare avanti anche senza le centrali atomiche. In Giappone siamo sempre stati particolarmente legati all’energia atomica. Il nostro governo ci ha sempre detto che era sicura ma ci ha traditi”.

giovedì 19 aprile 2012

Afghanistan - Offensiva talebana


“Qualche tempo fa, l’amministrazione di Kabul e gli invasori dissero che i talebani non sarebbero stati in grado di lanciare alcuna offensiva di primavera: gli attacchi di oggi sono appunto l’inizio dell’offensiva di primavera dei Talebani”. Con queste parole, dettate alla agenzia francese Afp, il portavoce talebano Zabihullah Mujahed ha rivendicato al telefono l’operazione militare che ha colpito Kabul e altre città afgane.
I Talebani hanno messo in relazione l’offensiva di primavera anche ai roghi del Corano, all’oltraggio dei marines statunitensi che urinarono sui cadaveri dei ribelli e alla strage di Kandahar.
Stando alle prime testimonianze si tratterebbe di una offensiva in grande stile.
Sono state attaccate l’ambasciata americana, quella inglese, quella giapponese, colpita da almeno 4 razzi, quella iraniana che ha preso fuoco e quella russa. Sotto attacco anche il parlamento afgano, che sarebbe stato preso di mira con razzi terra-terra. Secondo alcuni testimoni i ribelli sarebbero anche riusciti ad entrare nel palazzo del parlamento, secondo altri sarebbero stati respinti.
Numerosi razzi hanno colpito l’ambasciata britannica, uno dei quali avrebbe colpito il piano terra, mentre gli altri il perimetro esterno. L’ambasciata statunitense è stata evacuata e il personale sarebbe al sicuro.

giovedì 5 aprile 2012

Birmania - Il misterioso futuro di Aung San Suu Kyi


Birmaniadi Alessandra Fava
A Yangon, la principale città della Birmania, le bandiere della Lega nazionale per la democrazia (Nld) sventolano ovunque, specie nei paraggi della sede del partito, nei quartieri residenziali a nord, non lontano dalla Swedagon Pagoda. Le magliette con la faccia della leader, «The Lady» o «The Mother», come viene chiamata Aung San Suu Kyi, vengono vendute dai suoi sostenitori su carretti e pick-up in Swegondine Road e downtown, la parte vecchia di Yangon a ridosso del porto, trovate tazze, portachiavi e ogni genere di gadget, una proliferazione di simboli legati al partito del drago giallo volante su sfondo rosso, impensabile solo qualche anno fa quando i membri del partito e quelli di altre forze dell'opposizione venivano sistematicamente arrestati e perseguitati e oggi molti di loro fanno parte della diaspora di tre milioni di persone che per motivi politici ed economici hanno lasciato il paese. Un numero impressionante a fronte di 2 milioni e mezzo di abitanti oggi. Ecco perche nei giorni scorsi il presidente Thein sein ha chiesto agli emigrati di ritornare. «Siamo veramente felici - esclama un ragazzo di 22 anni che ha passato gli ultimi giorni a festeggiare - è dal 1990 che aspettavamo questo momento. Allora il partito vinse ma il risultato non fu riconosciuto. Oggi questa vittoria la dedichiamo anche a tutti quelli che sono morti per un ideale».
Una vittoria della gente comune. Ma a parte i militanti convinti, la febbre per la Lady sembra dilagare veramente nel paese, dovesi è registrata una media di preferenze che si aggira sull'80%. «Siamo contenti - dice un uomoin un vicolo della città vecchia avvolto nel suo longji - la mia famiglia storicamente ha sempreparteggiato per un altro partito dell'opposizione, il Partito democratico Myanmar, ma inoccasione di queste elezioni abbiamo tutti votato per Suu Kyi. Speriamo che lei possa cambiare il paese». Gli altri sorridono felici. «Siamo tutti poveri, speriamo che il futuro del paese migliori e possiamo vivere un po' meglio» spiega un'anziana della casa. Aung San Suu Kyi ha preso almeno 38 seggi su 45.

lunedì 26 marzo 2012

Afghanistan - La Kabul di oggi è un film dell'orrore

Non avrei mai pensato di trovare un luogo più tremendo della «Green zone» di Baghdad, mi sbagliavo. A Kabul la zona delle ambasciate è diventata un luogo infernale.
Girando tra i vari corridoi creati con i lastroni di cemento che la globalizzazione ha reso familiari in tutti i luoghi di conflitto, sembra di essere sullo scenario di un film dell'orrore. Dove gli unici segni riconoscibili sono le targhe delle ambasciate. Alcune sono appena state costruite, come quella indiana, tutta laminato (almeno appare tale da lontano) grigio argentato con cupole di vetro, che molti ritengono non dureranno a lungo (nel senso che potrebbe essere il facile obiettivo di un attentato).Del resto questa bunkerizzazione non garantisce la sicurezza, spesso ci sono scontri nelle zone limitrofe. Una zona militare con muraglioni coperti di rotoli di filo laminato si estende su due lati di una delle strade che attraversano la zona. Le macchine non possono entrare e quelle che lo possono fare devono continuamente superare sbarre controllate da militari.

lunedì 12 marzo 2012

Afghanistan - I testimoni smentiscono la versione ufficiale

Afghanistan
Secondo i comunicati ufficiali della missione Isaf, un soldato americano avrebbe fatto strage di civili in due differenti località nella provincia di Kandahar. Pesantissimo il bilancio che al momento conta quindici civili uccisi e altri cinque feriti. Tra le vittime ci sarebbero anche donne e bambini. Subito dopo il gesto folle il soldato si è consegnato alle autorità. La notizia, data in un primo momento dal Washington Post, è stata  confermata da una nota del comando Isaf, la missione Nato presente in Afghanistan.
Le testimonianze degli abitanti del villaggio contrastano non poco con le “indagini” ufficiali: a sparare, secondo tutti i testimoni, non sarebbe stato un soldato in preda ad un raptus di follia, ma un gruppo numeroso di militari definiti “ubriachi” da chi ha assistito alle sparatorie. “Sono arrivati ridendo e urlando. Poi sono entrati in casa e hanno sparato”, dicono i testimoni.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!